Agnelli un editore d’altri tempi: la Stampa, il mito di De Benedetti e altri aneddoti - Blitzquotidiano.it (nella foto d'archivio Giorgio Fattori a sin., poi Michele Torre, Gianni Agnelli, Antonello Perricone, Marco Benedetto al microfono, in seconda fila Emilio Melli)
Giovanni Gianni Agnelli fu sempre nel suo cuore un editore. Per questo è stato per tanti anni in affettuosa competizione col cognato Carlo Caracciolo l’editore l’aveva fatto sul serio.
Sono flash da un passato che non tornerà mai più. Altri personaggi, altro stile, altre condizioni di mercato. L’economia Italiana non era ancora quella di una potenza mondiale ma la tv era ai primi passi e soprattutto non era ancora arrivato il ciclone Internet.
Dentro di sé, Agnelli considerava la Fiat un dovere impostigli dalla legge ereditaria cui lui, da buon piemontese, non poteva certo sottrarsi.
Se però avesse potuto scegliere una carriera per sé, sarebbe stata quella di editori di giornali. Amava i giornalisti, anche se probabilmente non avrebbe voluto appartenere alla categoria.
Gli piaceva interrogarli, svegliarli all’alba per avere le ultime notizie, come faceva con Giovannini, Ronchey, Mauro, Sorgi.
Sono stato presente ad alcune cene che Agnelli organizzava a casa sua a Torino con una piccola corte di questi personaggi. Giovannini diceva che Ronchey prima di andare da Agnelli si preparava su possibili argomenti di colloquio. Furio Colombo, quando lavorava da New York, stava alzato fino alle quattro del mattino per essere in grado di telefonare all’Avvocato e raccontargli gli ultimi gossip della sera precedente a casa dell’ambasciatore.
Il disegno di Montezemolo

Ad un certo momento provó a sviluppare un settore editoriale. Nacque l’Itedi, affidata a Luca Montezemolo. Il disegno finì nell’ufficio di Attilio Monti a Bologna, dove il proprietario di Nazione e Resto del Carlino disse con brutale franchezza: Mo avvocato, l’ultima cosa che uno vende sono le pistole”.
Si dovette accontentare, qualche anno dopo, del regalo che Cesare Romiti gli fece portando nella scuderia della Fiat il “Corriere della Sera”. Agnelli era stato già azionista del Corriere nei primi anni ‘70, in piena rivoluzione culturale. Il giornale, proprietà di una accomandita, era in grave crisi. Giulia Maria Crespi, discendente di una dinastia di cotonieri che l’avevano rilevato negli anni ‘20 per ordine di Mussolini, si era rivolta al “caro Gianni” per un aiuto e Agnelli aveva accettato di pompare nelle casse della società editrice 30 miliardi di lire dell’epoca.
Lo fece da gran signore, senza andare a fondo nei conti, accontentandosi di quattro numeri scritti a penna su un foglio di carta da bozze che gli era stato consegnato all’interno di una automobile parcheggiata in una strada fuori mano a Milano.
La situazione al Corriere era un disastro. Le perdite erano ingenti, il caos totale, solo le vendite delle copie, sotto la guida capace di Ottone, crescevano.
Agnelli ne uscì per il rotto della cuffia, grazie alla capacità di Giovannini e alla sua irruenza. L’accomandita aveva un terzo socio, il petroliere Moratti. Crespi e Moratti avevano combinato di vendere le loro quote, tagliando fuori Agnelli.
Agnelli com’era

L’Avvocato era una persona superiore nello stile e nei comportamenti, ben diverso da altri suoi collaboratori e imitatori.
Mantenne un buon rapporto con Piero Ottone nonostante alcuni articoli malvagi usciti sul Corriere.
Autorizzò la pubblicazione sulla Stampa di cui era presidente di un velenoso editoriale di Arrigo Levi contro Gheddafi, colpevole di avere iniettato nelle casse della Fiat alcune centinaia di miliardi di lire del 1976.
Resse senza dare in escandescenze l’assalto del Corriere della Sera mosso da Tassan Din, che allora lo governava, per avere più pubblicità.
Benché il suo omonimo nonno avesse acquistato ben due volte (nel 1925 e nel 1946) da Alfredo Frassati il giornale di Torino, la Stampa, per anni Agnelli era stato tenuto da Vittorio Valletta ai margini non solo del più grande gioco della Fiat ma anche del giocattolo Stampa.
Nel 1946 Gianni Agnelli aveva 25 anni, viveva nella villona La Leopolda in Costa Azzurra e passava il tempo a litigare con Pamela Harriman, ex nuora di Churchill e futura ambasciatrice americana a Parigi.
Alla Stampa d’altra parte regnava incontrastato Giulio De Benedetti, uno dei più grandi direttori di tutti i tempi.
Anni dopo mi raccontavano ancora con orrore dell’anticamera che De Benedetti aveva imposto prima di riceverli ai due fratelli Agnelli Gianni e Umberto. Il giornale allora si faceva e si stampava in galleria San Federico, fra Piazza Castello e via Roma.
Licenziato: aveva 78 anni

Ai primi di dicembre del 1968, in coincidenza col trasferimento del giornale nella nuova sede di via Marenco, Agnelli da soli due anni presidente della Fiat prese il coraggio, due mani e licenziò Giulio De Benedetti che aveva ormai compiuto i 78 anni. Probabilmente nel suo cuore voleva sostituirlo con Giovanni Giovannini. Agnelli a quel tempo adorava Giovannini, lo raggiungeva in aereo dovunque si trovasse, ne apprezzava lo stile un po’ burbero.
La schiettezza era una qualità rara a corte. Quando passai dalla Stampa all’Espresso al servizio di Caracciolo, l’Avvocato mi disse solo: “Lei mi mancherà”.
Quella di Giovannini sarebbe stata una scelta di continuità, gradita alla redazione.
Ronchey direttore

Invece Agnelli optò per una soluzione meno torinese, nominando direttore Alberto Ronchey, poco più che quarantenne, di provenienza romana. Ronchey era molto vicino a Ugo La Malfa aveva lavorato anche alla Voce repubblicana.
La Malfa era una delle stelle polari di Agnelli e anche di suo cognato Carlo Caracciolo. Una delle poche occasioni di attrito che ebbi con Caracciolo in tanti anni di collaborazione e dipendenza fu quando dissi che per me la Malfa era stato pernicioso per l’Italia: col suo blocco della TV a colori aveva provocato la fine di un settore importante dell’industria nazionale.
Giovannini nel mio cuore

Giovannini era una personalità esuberante e abbastanza disinibita. La nuova sede della Stampa non era molto distante dalla vecchia location: nei miei anni torinesi di abitavo vicino a Piazza Castello e più di una volta mi capito di andare a piedi in circa mezz’ora alla giornale.
Però, nelle dimensioni torinesi, la nuova sede era ai confini del mondo, tra l’altro vicino anche all’obitorio, il che non rendeva l’atmosfera più allegra. Per dare sfogo al malumore della redazione Giovannini guidò un corteo di giornalisti ubriachi, arrivando a fare la pipì dalla finestra.
Uno dei più grandi giornalisti
Giulio De Benedetti è stato uno dei più grandi giornalisti italiani di tutti i tempi.
Torinese di adozione, di discendenza della omonima tribù ebraica di Asti, era stato corrispondente da Berlino per la Gazzetta del Popolo, giornale torinese all’epoca leader e che oggi non c’è più, per poi diventare vice direttore dello stesso giornale prima della guerra e delle leggi razziali.
Con lui la Gazzetta aveva raggiunto tirature di centinaia di migliaia di copie, mai viste prima, se non al Corriere della Sera di Milano. Durante la guerra si era salvato rifugiandosi in Svizzera.
Carlo Masseroni, nipote di Fanti, fondatore di Tuttosport, gli aveva salvato i beni. Dimostrando di avere in fondo al cuore spazio per la gratitudine, De Benedetti avevo voluto Masseroni come direttore amministrativo alla Stampa.
Era un piccolo gruppo di amici, Valletta, Pestelli e De Benedetti, che si riuniva spesso la sera in un appartamento della in un appartamento di via Gramsci, una traversa in stile razionalista di via Roma a Torino.
De Benedetti avena una figlia, Simonetta, la prima moglie di Eugenio Scalfari. Era una donna di grande fascino con due occhi quasi magici. Vittorio Chiusano mi raccontò un fatto che dà un’idea della sua tempra.
Simonetta De Benedetti era stata sposata in gioventù con un ricco torinese, morto in coincidenza con la nascita del loro figlio, morto a sua volta poco dopo la nascita. Si sarebbe aperta una questione di eredità se Simonetta non avesse di sua iniziativa rinunciato a tutto.
Scalfari è l’ombra del suocero

L’ombra di Giulio De Benedetti credo che abbia turbato i sogni e i sonni di Scalfari fino alla fine della sua vita. Immagino come quei torinesi guardassero ad Eugenio, bello, alto, affascinante, elegante con una bella voce e un bel portamento ma col difetto di essere calabrese. Inoltre suocero e genero facevano lo stesso mestiere.
Una sera d’estate del 1984, quando ero appena arrivato a Roma, fui nvitato a cena a casa di Scalfari con Giovanni Valentini. Eravamo solo noi quattro: Simonetta, Eugenio, Giovanni e io.
A un certo momento nel quartiere Nomentano, dove gli Scalfari abitavano, manca la luce Simonetta mi chiede: Cosa avrebbe fatto mio padre, Marco? La mia risposta un po’ ruffianesca fu: Avrebbe fatto tornare la luce. E lei, severa: Vedi Eugenio? E il povero Scalfari si alzò, andò al telefono e protestò. Ma Roma non è Torino e Repubblica non aveva allora a Roma il peso che la tampa aveva a Torino.
Nella sua villa a Velletri, Scalfari aveva costruito una specie di mausoleo del suocero: c’era “la scrivania di Giulio”, c’erano altri cimeli, dominava un grande ritratto.
Ma il confronto suocero, genero non si fermava lì, anzi era concentrato sul più essenziale dato professionale, le vendite dei loro giornali.
Con De Benedetti la stampa era arrivata a superare le 400.000 copie, Scalfari porto Repubblica a superare le 800.000 copie, salvo poi immaginarsi stratega della politica e della sinistra, alienandosi il favore dei lettori e avviando il processo di crisi che dura tuttora.
Come al New York Times mi dissero “Facciamo il giornale per la città più importante del mondo e per questo siamo il giornale migliore del mondo”, così De Benedetti faceva il giornale destinato alla classe operaia più avanzata in Italia e per questo faceva il giornale più avanzato d’Italia. Così Luigi Russo su Belfagor, in un saggio in cui confrontava Stampa e Corriere della Sera, a favore del giornale torinese, immortalò il trionfo del grande giornalista, che per distinguersi dal mondo Fiat in giacca cravatta portava sempre la “argentina”, noto meglio come maglione girocollo o “turtle neck”. I suoi amici o detrattori lo chiamavano a volte “ciuffettino” a volte Napoleone.
De Benedetti era un genio e lo dimostrano almeno tre cose a parte il giornale, un modello in avanti rispetto al suo tempo.
Innanzi tutto il modello di giornale, non solo nella privilegio riservato alla cronaca (la cronaca cittadina occupava la seconda pagina di un giornale di massimo 12) ma anche nel linguaggio nello stile dei titoli e degli articoli. Uno stile di italiano che fu poi dedicato da Panorama e da Repubblica. Uno stile di impaginazione che aprì la strada al Corriere della Sera di Ottone e alla Repubblica di Scalfari.
Poi, indimenticabile per quelli della mia generazione è il modo in cui teneva in pugno la redazione. I giornalisti erano in tutto una sessantina, metà in cronaca, metà nei vari settori di interni, esteri, spettacoli. La Stampa fu il primo giornale in Italia occuparsi di economia con una pagina curata da Mario Salvatorelli. Sopravvisse la terza pagina.
Quando il direttore entrava nella stanza, i redattori si alzavano tutti in piedi. Pochi osavano sfidarlo. Uno di questi fu Giovannini. Mi raccontarono che una volta il direttore entrò nella sala della cronaca e Giovannini fece mostra di nuovo accorgersene continuando a battere sui tasti della sua Olivetti. De Benedetti si avvicinò alle spalle di Giovannini, intento a scrivere alcune brevi di cronaca dai centri minori.
“Vedo che abbiamo un nuovo corrispondente dalla provincia” osservo il direttore. Giovannini, sempre seduto, replico:”Si signor direttore, tranne che da Rivoli”. “E perché?”. “Perché a Rivoli c’è già lei”, con allusione alla casa di De Benedetti a Rivoli, rifugio di meditazione quotidiana e base di lunghe passeggiate nel bosco.
Il loro rapporto era complesso di ammirazione e odio. Secondo Giovannini, quando il direttore gli affidava servizi in terre lontane e in situazioni pericolose come il Congo o l’Algeria, al fondo c’era “un desiderio davidico” che qualcosa andasse storto. (La Bibbia racconta che Re Davide mandò in prima linea a morire un suo fidato generale col difetto di essere marito di Betsabea).
Giulio De Benedetti arrivava al giornale a sera inoltrata. Verso l’una del mattino scendeva in tipografia e rifaceva tutta la prima pagina con l’aiuto di due tipografi. Quando arrivai alla Stampa, nel 1981, i tipografi (esclusi rotativisti e speditori) erano 117, con le nuove tecniche computerizzate scesero a 18.
La stanza del direttore era semibuia, illuminata solo da una lampada da tavolo. C’era una sola sedia, quella dietro la sua scrivania. Gli altri tutti in piedi a ascoltare ordini o reprimende. E uscivano rinculando, come nelle serie turche fanno i cortigiani davanti a Solimano il Magnifico.
Non c’erano interfono, la convocazione era fatta attraverso Fausto Frittitta, segretario di redazione, più basso di statura del direttore, con due occhi celesti da lacca cinese. “Quando sentivi il suo passo leggero avvicinarsi, cominciavi a tremare”, raccontava Giovannini.
Frittitta, di suo, era un uomo mite e gentile: lo conobbi, a fine anno ‘70, ormai in pensione, sembrava un qngelo.
Altro elemento del mito di De Benedetti fu la sue apparente ribellione ai voleri di Vittorio Valletta e dei vertici della Fiat.
Raccontavano di lunghe telefonate concluse dal suo nyet. Con l’esperienza di 60 anni nei giornali, a volte mi è venuto da pensare che quelle telefonate se le facesse da solo.
Resta però il fatto che mentre alla Fiat era in pieno svolgimento la caccia al comunista, De Benedetti dincomunisti riempiva la redazione, attingendo a piene mani all’Unita di Torino e Genova, grandi scuole di alta professionalità.
