Due funerali, al principio e alla fine dello stesso giorno. Due grandi riti, entrambi collettivi, offerti alla partecipazione e al “consumo” di milioni di individui grazie alla tv e ad internet. Due luoghi, due scene, due eventi allestiti e celebrati perché l’uomo possa guardare in faccia la morte e abbassare o sostenere lo sguardo. Due funerali, quello di Viareggio e quello di Los Angeles, l’omaggio e il saluto ai morti della stazione e il tributo e l’addio a Michael Jackson. Due risposte alla morte, l’una cattolica, l’altra pagana.
In quello stadio della Versilia a decine di migliaia hanno accolto e si sono sentiti confortati dallo “scandalo logico” della cristianità. Il funerale cattolico, indetto e officiato quando morte c’è, testimoniata e inverata dalle bare allineate sul prato, è liturgia e rito che la morte nega perché la morte possa essere tollerabile, concepibile da mente umana. Dice il prete cattolico e i convenuti, fedeli o no comunque convengono, che la morte terrena non è la fine. La morte non coincide con la fine, tutt’altro: questo è il messaggio. E mente e coscienza umana di questo messaggio hanno bisogno, eterno e insopprimibile bisogno di scindere il concetto di morte da quello di fine. Il primo, la morte, è sostenibile, il secondo, la fine, è impensabile. Quindi il funerale cattolico celebra la morte come un nuovo inizio: qualcosa, noi stessi, il noi se non proprio l’io nella sua individualità, continua. Non su questa terra, non in questo mondo. Continua, questo è certo, in un altrove che non perde la sua concretezza pur restando incerto, inconoscibile. Anzi, proprio il morire qui è viatico per continuare lì, nell’altrove. Nella forma cattolica che conosciamo e pratichiamo è la risposta più umana che gli umani hanno sempre dato alla morte: non la si sconfigge, la si accoglie. Non la si comprende, la si accetta. Perché vera morte non è, anche se lì, ai piedi dell’officiante, altro non c’è che un cadavere. Funerale quindi vuol dire reciprocamente rassicurarsi che per noi umani la fine non c’è. Continuiamo, in un altro mondo. Questo ci permette di morire in questo mondo, di sostenere lo sguardo della morte sia pure abbassando il capo quando passa.
Nello Staples Center di Los Angeles invece altra è la liturgia e altro è il rito. Qui si celebra la rivincita sulla morte che alcuni umani, solo alcuni, si prendono. La sostenibilità della morte secondo una cultura che oggi chiamiamo con una punta di denigrazione pagana, ma che pure potremmo chiamare classica in nome dei millenni e delle civiltà che ha ispirato, è fatta della certezza che gli “eroi”, anche dopo morti, restano. Restano qui, su questa terra, in questo mondo. In nome e nel segno delle “opere” realizzate in vita. Questo è il tipo di immortalità, o meglio di “non fine” che viene celebrata per Michael. Ma non c’è bisogno di essere stato in vita un campione in qualche disciplina o arte per sopravvivere a se stesso. Su scala minore, perfino familiare, il rito della “non fine” pagano è, secondo cultura classica, alla portata dell’uomo giusto e retto. La consapevolezza e la misura di sé sono la chiave del restare, del non finire.
Due funerali, due riti che affondano con le loro radici nel profondo della storia e del sentire umano. Sono anche spettacoli, show. Rappresentazioni in cui l’umanità si esibisce contro la morte invitandola a sedere accanto a noi con gesti e testi in cui il terrore e il coraggio sono inscindibilmente fusi.
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