Il clima negli ultimi anni sembra essere “impazzito”, come se un’entità dispettosa si divertisse a generare situazioni di caos climatiche e inusuali, come l’episodio di neve a Roma del passato febbraio 2010 o come il dividere un paese quale l’Italia tra alluvioni e nevicate al nord, e temperature estive al sud.
Ovviamente discutere del clima è divenuto una necessità, ed è lotta a livello scientifico e politico tra chi sostiene che l’uomo sia la causa dei profondi cambiamenti climatici dovuti al surriscaldamento globale, e chi invece sostiene che tali cambiamenti siano dovuti ai cicli di vita e di attività del pianeta stesso, vedendo nell’uomo una causa “debole” alla base di cambiamenti tanto radicali.
L’unica certezza che l’uomo può avere è la necessità di adattamento ai cambiamenti climatici, che stanno stravolgendo negli ultimi tempi città e regioni in ogni luogo del pianeta, che dovranno essere ricostruite ed organizzate in risposta a tali variazioni meteorologiche finora inaspettate.
In una ricerca del 2005 l’archeologo Paige Newby della Brown University dimostrò un collegamento tra i cambiamenti climatici dovuti ad una glaciazione avvenuta tra il 12.900 e 11.660 anni fa, detta “Younger Dryas”, e l’adattamento dei metodi di caccia alla nuova fauna collegata a tale clima, ritrovando della punte di frecce scanalate appartenute alle popolazioni del Nord America e impiegate per la caccia del caribù.
Newby osservò anche che al termine della glaciazione tali armi vennero abbandonate, in risposta alla scomparsa dei caribù ed alla comparsa di nuovi tipi di fauna e flora, legati ad un clima molto simile a quello odierno. In un recente studio riportato su Science il geografo Samuel Munoz, dell’università di Ottawa in Canada, ha realizzato un’analisi approfondita dei dati raccolti nel nord degli Stati Uniti ed ha osservato come esista una stretta correlazione tra la transizione da due diversi periodi culturali e i cambiamenti ambientali ed ecologici.
La storia del Nord America viene divisa dagli archeologi in tre fasi culturali: la Paleoindiana, l’Arcaica e il periodo Woodland, o letteralmente “terra dei boschi”, tutti caratterizzati dal passaggio dalla vita nomade a quella sedentaria, con cambiamenti radicali del nello stile di vita della popolazione ricollegabili alla variazione di fauna e flora del territorio.
Anche se gli autori della ricerca hanno dichiarato che i cambiamenti climatici non costituiscono un’implicazione diretta a variazioni culturali, è evidente dai reperti rinvenuti e analizzati che le popolazioni del nord America dovettero adattarsi a tali cambiamenti, o meglio doverono adattare periodicamente la loro tecnologia per sopravvivere in ambienti modificati dai cambiamenti climatici.
La ricerca di Munoz ha poi suscitato pareri anche contrari nella comunità scientifica, divisa tra scienziati come Bryan Shuman, paleo climatologo dell’università del Wyoming di Laramie, che ha spiegato come “le maggiori transizioni culturali sono avvenute in corrispondenza dei maggiori cambiamenti climatici ed ecologici”.
Al contrario il paleoambientalista Anthony Brown dell’università del Southampton del Regno Unito sostiene che i periodi culturali presi come riferimento nello studio non sono affidabili, poiché la loro definizione cronologica non è del tutto accertata, e ciò implicherebbe una non corrispondenza tra datazione dei reperti e cambiamenti climatici, rendendo nulle le conclusioni finora tratte.
I ricercatori dovranno ancora indagare per riuscire a svelare il delicato processo evolutivo che spinse le civiltà preistoriche a modificare il proprio stile di vita, segnando così l’inizio di un percorso che dalle prime società sedentarie giunge oggi fino a noi. Che le teorie di Munoz siano o meno universalmente accettate, è comunque innegabile il ruolo che l’ambiente e i cambiamenti climatici giocano nell’evoluzione dell’uomo, che sempre ha cercato di prevenire e di adattarsi all’ambiente che lo circonda e garantirsi la sopravvivenza, davanti a quegli eventi naturali che spesso non può controllare.