Ma i salotti no: Matteo Renzi barbaro eversivo, contro establishment e élites

Pubblicato il 27 Agosto 2014 - 06:27 OLTRE 6 MESI FA
Ma i salotti no: Matteo Renzi barbaro eversivo, contro establishment e élites

Matteo Renzi con Maria De Filippi nello studio di Amici. Ce lo vedete Monti?

ROMA – Matteo Renzi, barbaro eversore non digerisce proprio nessuno dei vecchi poteri che hanno portato l’Italia dove è, grande, ricca e sul viale del tramonto.

L’analisi che Mario Ajello ha tracciato sul Messaggero è da conservare. Non ce n’è uno che si salvi, non solo i sindacati ma anche la Banca d’Italia, che sì, è vero, va bene, ma che se poi li guardi un po’ da vicino non puoi dargli torto.

Per Mario Ajello c’è una forte assonanza con Berlusconi: nemmeno in questo gli puoi dare torto. Speriamo la somiglianza si fermi qui: la causa fondamentale del fallimento della azione politica di Berlusconi è che la sua motivazione era estranea agli interessi degli italiani e anche di una loro parte, maggioranza o minoranza che fosse, perché era finalizzata esclusivamente alla tutela delle sue tv.

Ha scritto Mario Ajello:

“Nessuno dei cosiddetti poteri forti – Matteo Renzi li chiama «i soliti noti» – è forte abbastanza per sfidare il 40,8 per cento di consenso che il premier ha indirettamente avuto alle elezioni europee.

Questa è la premessa che va a tutto vantaggio del capo del Governo, al quale, per suscitare in lui una smorfia di disappunto, basta pronunciare la parola «establishment» (anch’egli la usa ma solo per dire: «L’establishment ha fallito») o l’espressione «salotti buoni» («Non mi vedrete mai in uno di quei salotti») o la formula «capitalismo di relazioni».

Non è questo il suo mondo. E c’è certa milanesità di tipo finanziario e certa romanità da nomenklatura di sistema che sono proprio incompatibili, secondo Renzi, con il renzismo.

Non è un caso, per esempio, quanto il premier si voglia tenere lontano dalla Rai, cioè dal simbolo del potere crepuscolare ma che resiste disperatamente all’usura del tempo, al punto da non cercare contatti diretti con il direttore generale Luigi Gubitosi. I

Addirittura un renzianissimo doc, come il sindaco di Firenze, Dario Nardella, definisce il premier «un barbaro che fa paura ai poteri forti», i quali «lo percepiscono come estraneo e vedono in lui un rischio per la conservazione dello status quo».

Estraneità al vecchio capitalismo di relazione, idiosincrasia verso i mandarini dell’alta burocrazia di Stato che bloccano e annacquano tutto («la palude») ma anche totale avversione (ricambiatissima e «me ne farò una ragione») da parte di Renzi nei confronti di Confindustria e sindacati che per lui pari sono: espressione plateale del consociativismo da lui detestato.

Perfino con Banca d’Italia, che pure non viene associata al vecchiume compromissorio e improduttivo di certa Italia e le viene anzi riconosciuta anche da Renzi la dignità che merita, il premier ha un rapporto di distacco che nessun capo del Governo ha mai avuto.

Perché comunque anche la Banca d’Italia, agli occhi del promotore del «#cambiamoverso», è simbolo di una continuità con il passato, sia pure ad alto livello, da spezzare.

Quando Renzi ha deciso – contrariamente alle aspettative che davano per scontate alcune conferme importanti (Fulvio Conti all’Enel, Paolo Scaroni all’Eni, Massimo Sarmi alle Poste) – di cambiare i vertici delle grandi aziende di Stato, si è capito che era guerra con le élites.

La linea di frattura, rispetto ai «soliti noti», ha avuto conferma nella scelta dei subentranti. Figure estranee alla nomenklatura economica tradizionale, abituata al sistema di relazione a cui sia Mario Monti sia Enrico Letta da premier avevano dato continuità.

Renzi considera floscio l’establishment, più del Pil. Lo ritiene un potere soffocante. Popolato da boiardi, delle banche e dei grandi gruppi così come dell’amministrazione pubblica che usa il monopolio della propria esperienza per affossare ogni barlume di innovazione, convinti che non si possa fare a meno di loro e che però, agli occhi del rottamatore entrato a Palazzo Chigi, hanno la responsabilità di aver dato il loro appoggio a una linea di politica economica a volte ondivaga, spesso errata, solitamente adeguata a mantenere gli interessi degli intoccabili.

Anche con una parte di establishment con cui Renzi andava d’accordo e che credeva in lui, Diego Della Valle per esempio, i rapporti si sono guastati.

Il patron della Tod’s parla del renzismo come «teatrino della vecchia politica» e «aria fritta».

Per non dire di certi giornaloni che non sopportano l’approccio di Renzi, senza subalternità, nei confronti dei potentati economici.

L’estraneità del premier all’establishment più tradizionale è un qualcosa che lo lega a Silvio Berlusconi.

Quando dice «io mi occupo di futuro non di passato», Renzi parla anche del capitalismo di relazioni.

Quando dice che «l’Italia deve darsi una scossa», fa una critica anche agli imprenditori parassitari.

Quando qualcuno cerca di introdurlo presso i «soliti noti», lui risponde «no grazie».

Posizioni che hanno un che di populistico ma che sono anche rispondenti alla cultura renzista più profonda. E tutto ciò non significa, naturalmente, che a sua volta Renzi non abbia la sua rete di rapporti economici e finanziari, il suo mondo di riferimento, anche internazionale, come è ovvio per chiunque si occupi del governo delle cose. Ma i salotti, no”.