“Non è giusto vietare la croce”: hostess British ricorre a Strasburgo e vince

Pubblicato il 16 Gennaio 2013 - 12:05 OLTRE 6 MESI FA
“Non è giusto vietare la croce”: hostess British ricorre a Strasburgo e vince

LONDRA – “Ingiusto vietare di indossare la croce”: la Corte di Strasburgo ha dato ragione Nadia Eweida, 62 anni, la hostess inglese sospesa dalla British Airways per aver indossato un ciondolo a forma di croce sull’uniforme, violando così il dress-code imposto dalla compagnia aerea.  Secondo le norme, successivamente modificate, imposte dalla compagnia, ai dipendenti era fatto divieto di indossare qualsiasi gioiello o l’esposizione di simboli religiosi. Secondo i giudici Strasburgo, invece, i tribunali nazionali britannici avevano “dato troppo peso” all’esigenza di tutelare l’immagine della società a scapito del diritto di manifestare la propria religione della hostess.

Dopo sette anni, Nadia Eweida può portare il crocifisso al collo e ha avuto un indennizzo di duemila euro.  Già ai tempi del suo ricorso, alle hostess di terra era concesso di indossare il velo “hijab” e agli impiegati Sikh di portare il turbante, a patto che fosse di colore bianco o blu scuro, come i colori della compagnia. British Ariways è stata condannata per discriminazione, ma non è detta l’ultima parola: è stato già annunciato un ricorso in appello.

La sentenza ha destato anche il plauso del primo degli euroscettici, David Cameron, che su Twitter scrive: “Sono molto soddisfatto per questa decisione. E’ stato riaffermato un valore: la gente non dovrebbe essere discriminata per le proprie convinzioni religiose”.

Niente da fare invece per Shirley Chaplin, infermiera in una clinica, che era stata prima rimossa dal servizio attivo e poi aveva perso il posto, per aver rifiutato di togliersi una catenina con la croce, come invece chiesto dalla direzione per ragioni di sicurezza e igiene nei rapporti con i pazienti. I giudici di Strasburgo, nel suo caso, hanno sostenuto che “la protezione della salute e della sicurezza in ambito ospedaliero è di importanza molto maggiore” rispetto al diritto di manifestare il proprio credo.

Ancora più delicato il caso degli altri due ricorrenti, Lillian Ladele e Gary McFarlane, impiegati degli uffici comunali che si rifiutavano di celebrare matrimoni e offrire consulenza quando avevano a che fare con coppie gay. Le relazioni omosessuali sono “contrarie alla legge di Dio”, protestavano aggiungendo come per loro fosse impossibile compiere alcun atto che potesse costituire un avallo di simili relazioni. Hanno torto, secondo la Corte europea dei diritti dell’uomo: “Le partnership omosessuali sono in una situazione sostanzialmente simile alle coppie eterosessuali per quanto riguarda il loro diritto al riconoscimento giuridico e alla tutela della propria relazione”.