L’Espresso racconta le “mazzette” ai talebani. Ma fu solo opera di Berlusconi?

Pubblicato il 12 Agosto 2011 - 14:11 OLTRE 6 MESI FA

Il grafico del Times sulle morti in Afghanistan

ROMA –  Mazzette pagate dagli italiani ai talebani per comprarsi la loro non belligeranza nelle zone più calde dell’Afghanistan. Lo scrive l’Espresso in una lunga inchiesta dove viene attribuita una sorta di paternità dell’iniziativa a Silvio Berlusconi e dove si rende puntualmente conto del fastidio degli alleati per la prassi.

Il racconto dell’Espresso, si noti bene, ha una data d’inizio precisa: è l’estate 2008 e Silvio Berlusconi è da poco diventato presidente del Consiglio. Scrive il settimanale che l’allora presidente degli Stati Uniti George Bush lo incalza e la chiede di smetterla con i “finanziamenti” per comprare la non belligeranza dei talebani.  Scrivono Gianluca Di Feo e Stefania Maurizi che Berlusconi, allora, si sarebbe impegnato “ad andare fino in fondo con la faccenda”, insomma a capire cosa succedesse davvero in Afghanistan.

“I documenti riservati di Washington – scrivono i due – mostrano come il problema fosse diventato fondamentale per gli americani, che continuavano a ricevere rapporti dall’intelligence e dalle altre nazioni schierate in Afghanistan, sempre più insofferenti per la “scorciatoia” usata dagli italiani per pacificare le zone affidate al loro controllo. Secondo le informazioni raccolte dai nostri alleati, i “pagamenti per la protezione” servivano a sancire tregue tra le truppe di Roma e i guerriglieri nei territori più caldi”.  Non solo. Sempre secondo l’Espresso, dal 2008 in poi “ci sono almeno quattro dossier della diplomazia statunitense che sollecitano interventi al massimo livello sul governo Berlusconi per stroncare il giro di mazzette”.

L’Espresso,carte alla mano, racconta certamente una verità. Probabilmente, però, ne racconta solo una parte. Innanzitutto le denunce sulle presunte tangenti italiane ai talebani non sono affare di oggi e probabilmente iniziano prima del 2008. Berlusconi, quindi, è probabilmente il prosecutore più o meno consapevole di una strategia discutibile ma non ne è necessariamente l’iniziatore. Il Times ne scrisse in modo lungo e dettagliato già nel 2009 e BlitzQuotidiano fece la stessa cosa. 

Tutto, allora, muoveva da una mera considerazione matematica: nell’area afghana di Sarobi, a sud di Kabul, nel 2008 ci fu un passaggio di consegne. L’area dal controllo militare italiano finì, come da programma, sotto quello francese. Qualcosa, però, non andò esattamente come doveva. L’area, infatti, nel periodo di controllo italiano appariva relativamente tranquilla. Arrivarono i francesi e si trasformò in una trappola. Secondo il Times il motivo era semplice: gli italiani, già nel 2008, pagavano i talebani in cambio di tranquillità.

Un grafico elaborato e pubblicato sempre dal Times mostrava in modo impietoso che, a livello percentuale,  i soldati italiani morivano molto di meno che quelli statunitensi e quelli francesi: un modo per mostrare con i numeri che in qualche modo i nostri “ammorbidivano” i talebani.

Allora Ignazio La Russa smentì sdegnato. Poi, però, una difesa dell’operato italiano arrivò sempre dal Times con l’analista Sam Kiley che scrisse: “Se hanno pagato hanno fatto bene”. Secondo l’esperto, infatti, la strategia era pienamente compatibile con la filosofia dell’allora comandante della missione in Afghanistan, il generale Stanley Mc Chrystal secondo cui per vincere occorre minimizzare danni e perdite e conquistare il favore della popolazione civile.

L’errore italiano, semmai, è stato quello di non dire nulla ai francesi. Quando gli italiani lasciarono la zona, infatti, i Talebani pensarono alla rottura di un patto (i francesi non sapevano e non pagavano) e se la presero a suon di attentati coi nuovi venuti.

Sta di fatto che la tempistica delle eventuali mazzette fa pensare ad una pratica nata e consolidata ben prima del governo Berlusconi.  Gli esempi non mancano. Nel 2007, all’indomani della liberazione di due agenti del Sismi, l’allora ministro della Difesa Arturo Parisi, spiegò così la loro presenza in Afghanistan: “I nostri operatori erano incaricati di mantenere e sviluppare dei rapporti con la popolazione civile e le autorità locali per individuare le migliori forme di collaborazione e convivenza, nonchè di raccogliere informazioni utili a tutelare la protezione del contingente dalla minaccia terroristica”. Collaborazione e convivenza con le autorità locali, i taliban, appunto.

Poi c’è la questione Daniele Mastrogiacomo, il giornalista  di Repubblica sequestrato il 5 marzo 2007 sempre in Afghanistan. Allora, al governo, non c’era Berlusconi ma Romano Prodi. Andò che Mastrogiacomo fu fortunatamente liberato circa due settimane più tardi dopo una lunga trattativa che vide impegnati governo, talebani ed anche uomini di Emergency.

Finì con uno scambio di prigionieri e durissime accuse di Usa e Gran Bretagna al nostro Governo per aver “ceduto ai terroristi”.  A lungo si discusse di un possibile pagamento in contan0ti ai talebani per il rilascio. Arrivarono anche migliaia di files di Wikileaks, quasi tutti sulle critiche al governo di allora. Prove di un versamento, però, no.

Resta, però, la sostanza di una prassi: ai talebani non si spara e basta. Sul territorio con loro in qualche modo si prova a convivere forse anche a pagarli. E questa non è stata solo farina del sacco di Berlusconi.