Ricucci, giornalista rapito in Siria. L’ultimo post: “Racconterò la tragedia infinita”

Pubblicato il 6 Aprile 2013 - 00:33| Aggiornato il 18 Dicembre 2022 OLTRE 6 MESI FA

ROMA – “Voglio raccontare la tragedia infinita. Là ritrovo l’anima del mestiere”, queste le ultime parole lanciate in rete prima di partire da Amedeo Ricucci, uno dei quattro giornalisti italiani rapiti in Siria dai ribelli. Laggiù, in Siria, Ricucci era andato a raccogliere la verità su “una tragedia infinita che si consuma nell’indifferenza delle cancellerie occidentali e dell’opinione pubblica internazionale”. A scovare quello che sembra quasi un testamento giornalistico, depositato poco prima di partire, è il quotidiano la Stampa che ne riporta ampi stralci:

Onesta, umiltà, passione, competenza, interazione e trasparenza: sono secondo me i presupposti per costruire un nuovo patto di fiducia fra giornalismo e pubblica opinione nell’era della Rete e dei social network. on c’è altra via per recuperare la credibilità di un mestiere che sembra aver perso l’anima, oltre che la bussola, e si dimostra sempre più incapace di intercettare le esigenze reali. 

Così dopo l’Africa e il Medio Oriente, Ricucci è voluto tornare in prima linea, in quel posto dove “si muore in silenzio”: la Siria. Ricucci ha lavorato nei team di Milena Gabanelli e Giovanni Minoli. Nel 2004 ha pubblicato il libro-reportage “La guerra in diretta”. Dal 2005 racconta il mondo per “La storia siamo noi”. E proprio per quest’ultimo è andato in Siria:

Raccontarla andando sul posto non è facile, come dimostra l’alto tributo di sangue già pagato dai giornalisti e dagli operatori dell’informazione che in questi due anni hanno provato a farlo. E poi c’è il rischio dell’effetto-assuefazione, che consiglia di non esagerare con le notizie, le foto o le immagini dai fronti di guerra per non turbare troppo i sensi e le coscienze delle famigliole riunite per cena nel tinello di casa. Tutto vero. Forse, però, l’indifferenza è figlia anche della nostra incapacità di raccontare la tragedia siriana, coinvolgendo di più e meglio il nostro pubblico, rendendolo cioè partecipe di quella tragedia. Ed è una cosa che si può fare, con le tecnologie che abbiamo a disposizione. Anzi, è una cosa che si deve fare, se si crede nel dovere della testimonianza e nel diritto all’informazione

Il progetto che lo ha spinto ad andare fin laggiù si chiama “Silenzio, si muore”. In un post datato 23 marzo, ne parla con incredibile passione:

E il primo esperimento Rai (e italiano) di giornalismo partecipativo. Dal 1° al 15 aprile sarò in Siria, a decidere questa volta il mio percorso di viaggio, le notizie da seguire e le storie da raccontare, sarà un gruppo di studenti di San Lazzaro di Savena, collegati costantemente con me via Skype. E’ un gruppo che ha già avuto modo di seguire il lavoro che noi di “La Storia siamo noi” abbiamo fatto nei mesi scorsi ad Aleppo con“Siria 2.0″ e sono ragazzi magnifici, da cui mi farò guidare con piacere, certo che i loro consigli, dubbi ed emozioni possano essermi altrettanto utili di quelli che può darmi un collega o il mio direttore