L’Italia di oggi dà lavoro solo agli italiani di ieri: gli immigrati

Pubblicato il 4 Aprile 2011 - 11:00 OLTRE 6 MESI FA

Foto Roberto Monaldo / LaPresse

E’ vero solo in parte che il sistema Italia produce disoccupazione: è vero solo per gli italiani, come fa notare Luca Ricolfi che in un pezzo su La Stampa mette in fila i dati dell’Istat:

Nei primi tre anni della crisi, ossia fra la fine del 2007 e la fine del 2010, l’occupazione in Italia è diminuita di circa 400 mila unità (senza contare la cassa integrazione). Quella variazione, tuttavia, è il saldo fra un crollo dell’occupazione degli italiani, che hanno perso quasi 1 milione di posti di lavoro, e un’esplosione dell’occupazione degli stranieri, che ne hanno conquistati quasi 600 mila. Nel 2007, prima della crisi e dopo quasi vent’anni di immigrazione, gli stranieri occupati in Italia erano circa 1 milione e mezzo, tre anni dopo erano diventati 2 milioni 145 mila, quasi il 40% in più. Un boom di posti di lavoro nel pieno della più grave crisi dal 1929. Come è possibile? In parte lo sappiamo: gli italiani, pur non essendo molto più istruiti degli stranieri regolarmente residenti in Italia, non sono disposti a fare tutta una serie di lavori che gli stranieri invece accettano. Ma questa non è una novità. La novità è che durante la crisi l’occupazione straniera è esplosa, e continua a crescere a un ritmo elevatissimo. Anche nell’ultimo anno, con i primi timidi segnali di ripresa, gli italiani hanno perso qualcosa come 166 mila posti di lavoro, mentre gli stranieri ne hanno guadagnati ben 179 mila (+9,1%).

Il problema, spiega bene Ricolfi, è che l’Italia del Duemila non produce posti di lavoro per gli italiani del Duemila, mediamente istruiti e benestanti. Crea invece opportunità e occupazione per gli italiani degli anni 50, quelli prima del boom, poveri e con la quinta elementare. Chi sono adesso gli italiani degli anni 50? Gli immigrati.

La realtà, forse, è un’altra, più difficile da digerire per noi italiani. Nella crisi, il nostro sistema produttivo è diventato ancor meno capace di prima di generare posti accettabili per gli italiani. È per questo che gli immigrati regolari stanno lentamente, ma implacabilmente, diventando uno dei segmenti più dinamici e attivi della società italiana, come mostrano l’andamento del tasso di disoccupazione (in calo per gli stranieri ma non per gli italiani), il contributo al Pil, il valore delle rimesse verso i Paesi d’origine, il moltiplicarsi in ogni parte d’Italia delle partite Iva e delle micro-imprese gestite da immigrati: negozi, bar, officine, aziende di trasporti e di servizi. È triste ammetterlo, ma gli stranieri occupati in Italia sono diversi da noi non già perché «loro» sono meno istruiti e meno ricchi, ma perché somigliano a quel che noi stessi eravamo negli Anni 50: un popolo uscito da mille difficoltà e determinato a conquistarsi un futuro a colpi di sacrifici e duro lavoro.

I flussi migratori in entrata allora diventano non un problema ma una risorsa necessaria a tenere in piedi la baracca. Soprattutto fino a quando l’Italia continuerà a pensarsi e progettarsi come una baracca e non come una casa con tutte le finiture in regola e magari con qualche tocco di design. Fino a quando cioè il nostro Paese non deciderà di puntare su uno sviluppo più avanzato incentrato non sulle pizzerie ma su cose un po’ più immateriali ma forse più redditizie: ricerca, scuola, cultura. Ma un ministro non di peso secondario disse: “Con la cultura non si mangia”. Il fatto però è che – senza cultura – i nostri figli laureati non troveranno lavoro e non mangeranno.

Visto da questa angolatura il problema dell’immigrazione assume contorni un po’ diversi. Sul versante del mercato del lavoro, il problema dell’Italia – per ora – non è di essere invasa dagli stranieri, ma di essere più adatta agli stranieri che agli italiani. Il nostro guaio non è che gli stranieri ci portano via i posti di lavoro, ma che ci ostiniamo a creare posti che né noi né i nostri figli sono disposti a occupare. Camerieri, pizzaioli, fattorini, autisti, badanti, muratori continuano a servire al sistema Italia. Molto meno ingegneri, tecnici specializzati, ricercatori, tutti mestieri per i quali – se si è davvero bravi – forse è meglio guardare alle opportunità che si creano negli altri Paesi avanzati che sulla scuola, la ricerca e la cultura hanno puntato più di noi.