Jorge Mario Bergoglio, il Papa che è andato dal mondo alla fine del mondo

di Franco Manzitti
Pubblicato il 16 Marzo 2013 - 06:46| Aggiornato il 7 Ottobre 2022 OLTRE 6 MESI FA

CITTA’ DEL VATICANO – Bisogna esserci andati dove c’è il mondo alla fine del mondo e avere misurato il senso della distanza per capire la seconda frase del Papa Francesco, Jorge Mario Bergoglio, nella sua prima apparizione alla loggia di san Pietro: “Voi sapete che il dovere del Conclave era di dare un vescovo a Roma: sembra che i miei fratelli cardinali siano andati a prenderlo questo papa quasi alla fine del mondo”.

Se vai in fondo all’Argentina, in fondo alla pampa e poi in fondo alla terra del fuoco e in fondo alle rocce ghiacciate, ai golfi di acque striate di blu e di schiuma bianca, dove non ci sono neppure più gli orsi marini e il vento è un vento che sembra soffiare da un altro mondo che non è quello che finisce lì, cogli quel primo pensiero di Francesco. E puoi immaginare perchè gli argentini come lui e i figli di italiani in Argentina, cresciuti laggiù, hanno quello sguardo fermo ma melanconico, quel filo di ironia che li porta a parlare di un “mondo che finisce”, come di una ineluttabilità mica solo geografica.

Capisci il fondo di nostalgia geneticamente annidata nella memoria degli avi emigranti, dei quali l’Argentina è popolata. Capisci definitivamente e per paradosso anche il fascino irresistibile del tango, della sua musica struggente, non solo dei suoi movimenti languidi, poi secchi improvvisi, gli sguardi fissi, le giravolte che scuotono l’aria e poi gli improvvisi arresti, proprio come se ti affacciassi sulla fine del mondo.

Anche il nuovo Papa ama il tango e questa passione che non è certo quella di danzarlo è la sintonia con la melanconia in movimento delle sue note. Laggiù, a quindicimila chilometri da qua, il cielo, la terra, il ghiaccio, il mare, il vento, le geografia loca (pazza), come la chiamano, sono i segni di una fine che non sembra solo geografica.

E allora immagini tutta la strada che si deve fare, quando si parte da questa nostra terra nel Nord Ovest italiano, nel cuore europeo, dal Piemonte del nonno di Francesco I, Asti, paesino di Portacomaro Stazione per arrivare all’Argentina e poi in fondo all’Argentina. E quale altro percorso hanno fatto gli altri avi, quelli materni che sono scesi da Santa Giulia, frazione di Lavagna, provincia di Genova, i Sivori progenie che a sua volta ha generato la madre di Francesco.

E’ la strada che fece il nonno del nuovo papa, Mario Giuseppe Francesco Bergoglio, di 24 anni, con i suoi genitori nel 1929 imbarcandosi sul “ Giulio Cesare”, allora l’ammmiraglia della flotta passeggeri, nel porto di Genova, da dove si partiva “per le Americhe”, nella seconda ondata migratoria, quella che complessivamente avrebbe portato via un’altra Italia nei Continenti del mondo, almeno 47 milioni di italiani tra la fine dell’Ottocento e gli anni Cinquanta del Novecento, più di sette milioni imbarcati dalle banchine genovesi. In quella Stazione Marittima con l’orchestrina che suonava, i fazzoletti bianchi, le lacrime di chi non si sarebbe rivisto mai più.

E in mezzo a loro, come un punticino, una riga di inchiostro negli archivi immensi che raccolgono i segni di quelle ondate migratorie: la famiglia Bergoglio, imbarcata a Genova, in partenza per Buenos Aires, febbraio 1929, l’anno della Grande Depressione. Che coincidenze: quella tempesta economica mondiale, quattro anni dopo la quale, Giorgio- Jorge Bergoglio nasce a Paranà, stato centrale della Confederazione Argentina e la tempesta del 2008, poco più di quattro anni dopo la quale quel Bergoglio diventa Pontefice della Chiesa di Roma.

Fu subito un miracolo quel viaggio che i Bergoglio dovettero rimandare perché mancavano i documenti. Sarebbero dovuti partire due anni prima, nel 1927, sulla Principessa Mafalda, che era naufragata al largo del Brasile nell’ottobre di quell’anno, seppellendo in mare quasi mille emigranti, che erano oramai a un passo da quella che allora appariva la terra promessa. Ma che per molti non lo era.

Sarebbero scomparsi nelle acque maledette del golfo della Catalina, mare infido, cattivo, dove i piroscafi di quell’era correvano rischi grandi durante le tempeste. Sarebbero annegati tutti come quelli dell ‘Ortigia un altro “barco” carico di immigrati, sprofondato al largo di La Plata, più giù, lungo il cono sud est del Continente sudamericano. Anche quello era già un mare in fondo al mondo, che quando toccavi terra vivo eri felice solo per quello, dopo traversate difficili, una vera epopea, dove ti minacciavano non solo il mare cattivo, i venti contrari, ma perfino le epidemie che scoppiavano a bordo, la dura vita sopratutto per chi dormiva nei cameroni di terza classe, ammassati come animali, sbattuti dalle tempeste, spesso inclinati da difetti irrimediabili di quelle che poi avrebbero chiamato “carrette del mare” e che invece allora erano le navi della speranza di una vita migliore.

Andavano i nonni di Francesco a raggiungere i fratelli di Mario, che dal 1922 avevano aperto una ditta per la pavimentazione delle strade nello stato di Paranà.
Già il Paranà, il grande fiume che da il nome allo Stato, sfocia in modo imponente a Buenos Aires nel Rio de la Plata con l’ampiezza di un grande mare e ha confini tanto larghi che puoi incominciare a capire come sei arrivato in fondo a qualcosa di immenso, tanto immenso che forse finisce. Da una riva non riesci a scorgere l’altra sponda e in mezzo c’è una acqua gialla fangosa, ricca di terra, che viaggia appunto come un mare verso l’abbraccio dell’Atlantico, sulla linea di confine tra Argentina e Uruguay. E’ li che è nato Jorge Mario, futuro Francesco, in una terra immensa attraversata da quel fiume sterminato, dalla quale l’Italia, al di là del mare, a Nord, molto a Nord, sembra quasi una miniatura.

Il mondo alla fine del mondo è una sensazione che in Argentina ti pulsa nelle vene non solo se affascinato dai racconti dei grandi scrittori, come Francisco Coloane o dei mitici viaggiatori, come Bruce Chatwin che ne hanno scritto quasi puntigliosamente, presi per primi da quel senso di confine del mondo che si percepisce quando si viaggia in giù, quando ti lasci dietro Baires e poi La Plata e poi Bahia Blanca e poi la pampa, che non finisce mai e poi quei luoghi perduti dove vivono popolazioni residuali di cacciatori, pescatori che a una certa latitudine hanno già nostalgia della stessa pampa fuegina e di quella patagonica, perché sotto verso il Polo è un mondo molto più sperduto e precipiti come verso un pozzo oscuro, dove ti salvi solo continuando a navigare inesorabilmente in mari sperduti, fino a quello antartico.

Come si respira tutto questo a Buenos Aires, come lo ha respirato anche Jorge Mario Bergoglio, figlio di immigrati, come si respira se stai migliaia di chilometri più a Nord, magari anche nel cuore della Ciudad Federal, Buenos Aires, dove il giovane futuro Francesco arriva ancora in tenera età? Il soffio del mondo alla fine del mondo è forte anche perché non ci sono barriere, non ci sono montagne, catene che dividano quel paese e quando i vento gelido soffia verso nord da quegli spazi perduti arriva fino a Buenos Aires e di colpo la temperatura precipita anche d’estate, di primavera e tu senti il soffio gelato di quel mondo sperduto.

E allora si capisce da quale storia venga il nuovo papa e perché il suo primo pensiero sia stato a quella provenienza così lontana, ma anche così vicina per un Bergoglio, per una famiglia partita da Asti e da Genova, legata ancora così forte a quella memoria da far conservare a lui, futuro prete, futuro gesuita poi monsignore, poi vescovo, poi arcivescovo, poi cardinale, un pugno di terra piemontese sempre quasi in tasca e quel sentimento di distanza, quel metro che poi i figli degli emigranti portano sempre dentro al proprio cuore.

In Argentina tutto, non solo le distanze, offrono un senso di drammaticità e come era possibile che il futuro Francesco evitasse questo, nella sua vicenda di figlio di emigranti, poi di sacerdote, poi di pastore per tutto il Novecento e nel nuovo millennio, in fasi storiche nelle quali il suo paese, l’Argentina ha attraversato drammi epocali, tragedie ineguagliabili, come le disgrazie di un’economia che dagli anni ruggenti della Belle Epoque, unica fase di ricchezza, è sprofondata in fallimenti, rivoluzioni economiche, inflazioni leggendarie, deflazioni, in una galleria di dittatori, caudillos, rivoluzionari, generali, ammiragli, “regine” come Evita e poi Isabelita e oggi questa Cristina Kirckner, “la presidenta”, successora del marito Nestor, ultimi protagonisti dell’ultima versione peronista, la terza o la quarta dopo l’avvento al potere dei descamisados di Juan Alberto Peron alla fine degli anni quaranta. Una sequenza senza fine di illusioni che hanno massacrato il popolo e l’economia: tutti peronisti, di destra, di sinistra, di centro: Peron, Isabelita con il dentista assistente Hembert Campora, Menem e alla fine i Kirckner.

La Cristina oggi è la “nemica” di Francesco, che non interrompe la seduta in Parlamento alla notizia più grande che l’Argentina abbia mai udito almeno dopo l’arrivo in armi della flotta inglese della signora Tatchter _ un papa che viene da lì, quasi dove finisce il mondo_ e preferisce la commemorazione di Hugo Chavez agli onori per Bergoglio.
I Kirckner sono l’ultima soluzione maschile-femminile di quel paese dalla geografia immensa e dalla politica imprendibile, nella quale il rimbalzo tra dittatura militare e peronismo, variabile tra destra e sinistra, ha azzerato per sempre le possibilità di riscatto di un popolo condannato: è il più ricco di materie prime e di coltivazioni dell’intero pianeta e sprofonda nei debiti e nella incapacità di sviluppare le sue risorse immani.

Bergoglio diventa sacerdote, consacrato nella cattedrale di piazza de Mayo a 33 anni, nel 1969, quando al governo c’è un generale, Alberto Ongania, una dittatura morbida, che preparerà con il suo successore, il generale Hector Lanusse, il ritorno di Peron nel 1972 e quindi con il suo fallimento la strada a uno dei regimi più duri dell’epoca moderna, quello dei generali Videla e dell’ammiraglio Massena.

Ai confini del mondo, in quegli anni terribili tra il 1977 e i primi Ottanta della incredibile guerra delle Falkland, volavano gli aerei militari argentini che scaricavano in quel mare livido i desaparecidos a migliaia, impiombati con il cemento per farli sprofondare in fondo al mare: 30 mila desaparecidos rapiti e uccisi dalle squadre della morte prima e poi dai militari in divisa. Ecco uno dei contesti drammatici nei quali Bergoglio, allora giovane padre provinciale dei Gesuiti, si era trovato ad agire e nel quale oggi, nel giorno della sua sobria gloria pontificale, hanno cercato di coinvolgerlo, accusandolo di non avere difeso due confratelli che lavoravano con gli oppositori del regime sanguinario di Videla e che sarebbero diventati dei desaparecidos. Quelle accuse di non avere protetto i confratelli, di non avere alzato la voce contro il regime sono cadute da sole.

Erano probabilmente il frutto della opposizione che Bergoglio ha continuato a fare ai governi che decenni dopo quelle tragedie gestiscono l’Argentina, non affrontando il tema per lui fondamentale della povertà, delle immense sacche di miseria che si ingigantiscono non solo nelle periferie sterminate di Buenos Aires.
Ha raccontato un ambasciatore italiano di origine genovese, Giuseppe Cassini, che quando nel 2003 si recò con una delegazione mondiale in Argentina per un delicatissimo incontro con la diplomazia e con il cardinale Bergoglio per affrontare le questioni delicate del grande debito che pesava come i macigni ai piedi dei desaparecidos catapultaati in mare, Sua Eminenza aveva disertato e fatto sapere che si trovava nelle periferie disastrate della sua città a lavorare per i poveri.
Ai Kirckner Bergoglio si è sempre opposto non sulla base di una rivoluzionaria Teologia della Liberazione, cara a tanti preti-revolucion del Continente sudamericano. Ma perchè secondo lui la devastante crisi economica che affamava i pueblos argentini era la conseguenza di politiche neo liberaliste, che considerano i guadagni e le leggi dei mercati come parametri assoluti, a danno delle persone e dei popoli.

E allora ecco la sua terza frontiera, dopo quella geografica della distanza e quella sanguinosa della dittatura militare e delle sue ingiustizie, la lotta alla povertà.
Ecco dove deve essere nato quel Francesco, che Roma e il Vaticano hanno consacrato papa: in quelle periferie immense di Buenos Aires, città di dieci milioni di abitanti, i cui confini sfumano nelle baraccopoli infinite, nel degrado assoluto, dove la povertà mangia il terreno nella sua diffusione, mangia la pampa che cresce a Sud della capitale federale, verso quel Sud della fine del mondo.

E’ lì che la tonaca nera di Bergoglio andava a inzaccherarsi, quando scendeva dalla metropolitana, magari in fondo a calle Rivadavia, quella strada di cinquanta chilometri, che attraversa da cima a fondo il cuore della capitale: dalla opulenza delle Avenidas, della plaza de Mayo e del Congresso alle baraccopoli .
E’ tra quelle baracche che il cardinale ha definito la povertà “un delitto sociale”. Portava in tasca quel pugno di terra piemontese e in testa i versi delle canzoni piemontesi, imparate dal padre emigrante, dagli zii emigranti, e quel senso della distanza.

Come stupirsi, quindi, di un papa che viene da laggiù e si battezza Francesco e non si mette la mozzetta rossa e si tiene la sua croce di ferro sul petto e rifiuta l’oro e la limousine vaticana, che accetterà un anello dello stesso metallo e che starà in mezzo al popolo?