La Russa e i rifugiati, una reazione forse un po’ troppo maschia. Ma come dargli torto?

di Marco Benedetto
Pubblicato il 18 Maggio 2009 - 20:24| Aggiornato il 17 Settembre 2010 OLTRE 6 MESI FA

Il ministro della Difesa Ignazio La Russa non impersona, per chi scrive, il prototipo della simpatia, almeno quanto uno può vedere e sentire in tv. Questa premessa è doverosa anche se non necessaria, perché qui non sono in discussione gli indici di gradimento dell’on. La Russa, che certamente sono alti, a giudicare dal successo elettorale che lo accompagna da tempo. Sono invece in discussione gli aspetti politici delle parole dette negli ultimi giorni dal ministro, che hanno provocato un bel po’ di polemiche sui rapporti tra Italia e Onu.

Sulle parole del ministro si devono fare alcune distinzioni. Non si può essere d’accordo sullo stile del ministro, quando porta confusi e anche un po’ sgangherati attacchi personali a singoli rappresentanti (la signora Laura Boldrini, ad esempio) dell’organizzazione internazionale per i rifugiati. Quello non è parlare da ministro, e La Russa se lo poteva risparmiare.

Però, sul titolo dell’Onu a dettar legge in casa altrui, la sostanza di quel che ha detto La Russa è più che condivisibile.

L’Onu è una gigantesca e costosissima macchina internazionale, popolata di funzionari strapagati, che, nella pratica, è servita e serve a ben poco.

Certo è importante che ci sia un luogo, in un angolo del mondo, che poi è New York, dove le grandi potenze possono attivare un costante canale di comunicazione diplomatica, quasi di routine. Ma poi, alla fine, a che serve l’Onu?

La domanda non segue la logica con cui se la sono posta gli americani al tempo della presidenza di George Bush e del suo ambasciatore sfasciatutto John Bolton, perché era un po’ troppo rozza e brutale. (La tesi americana era: noi siamo i più grossi contribuenti dell’Onu, che senza di noi non potrebbe funzionare, e cosa otteniamo in cambio? Un focolaio di ostilità verso gli Stati Uniti).

La domanda si basa sui risultati ottenuti e sui fallimenti conseguiti: dal Darfur alla Bosnia, passando per le tragiche e tenebrose vicende africane, senza trascurare la Cambogia, dove migliaia di giovanotti a diecimila dollari al mese sfrecciavano su potenti Jeep in mezzo a quella infinita miseria, senza essere in grado di garantire una piena transizione alla democrazia e meno che mai un vero processo ai colpevoli delle stragi dei Khmer rossi degli anni ’70 che poi sia stato meglio così non dipende certo dalla lungimirante saggezza dell’Onu.
Se la Russa ha reagito in modo un po’ troppo maschio alle parole dell’Unhcr, gli va data l’attenuante del fallo di reazione, rispetto a una interferenza sulla quale si è poi montato un caso politico dai profili confusi, perché tutti facevano a chi era più buono e buonista e umanitario, scavalcandosi l’uno con l’altro, specie a destra, in una serie di dichiarazioni che avevano solo sapore di campagna elettorale; e facevano brillare il buon senso delle parole dell’ex segretario ds Piero Fassino, che cercava di non confondere la carità cristiana con il senso dello Stato.
(In questa sede non si vuole toccare il tema dell’ingerenza dei vescovi, che dal sicuro delle mura vaticane, dove zingari, questuanti e clandestini sono notoriamente accolti come rifugiati con tutti gli onori, hanno pontificato anche loro sul comportamento che per la prima volta a memoria d’uomo tiene lo Stato italiano in materia di clandestini o aspiranti tali).
Intanto, come rivela la Stampa, mentre tutti sono ipnotizzati dai barconi che arrivano alle coste italiane dalla Libia, il vero grande traffico di clandestini si svolge su altre rotte, quelle di terra, dai paesi dell’est europeo. Ma sappiamo bene come vanno le cose da noi. Qualsiasi cosa accada, ci sarà sempre qualcuno pronto a sparare dichiarazioni più o meno centrate e ci sarà sempre qualcuno pronto a rilanciarle, su un’agenzia di stampa, un sito internet, un giornale. Poi il polverone si dirada, tutto torna come prima, e i problemi rimangono senza soluzione.