Monti e gli “abusi” di intercettazioni

di Salvatore Sfrecola
Pubblicato il 20 Agosto 2012 - 13:43 OLTRE 6 MESI FA

Nella polemica sulle intercettazioni, rovente come il clima meteorologico in vista di una definizione di legge in autunno, è intervenuto il primo ministro Mario Monti, che detto ai giudici: “Basta con gli abusi”.

Prima di analizzare il senso giuridico della parola abuso e di conseguenza se il primo ministro l’abbia o meno usata impropriamente, come hanno affermato alcuni intervenuti nella polemica di questi giorni, è bene chiarire  alcuni elementi chiave.

Il tema delle intercettazioni costituisce in misura crescente un nervo scoperto dei politici. Molti di loro sono o sono stati intercettati, molti di loro sono stati sorpresi a sbrigare affari personali o di partito.

Questo spiega la spinta a escludere le intercettazioni dai mezzi di accertamento dei reati, soprattutto di corruzione, concussione e truffa ai danni dello Stato. Indubbiamente i politici sono aiutati nella loro battaglia di categoria dalla impropria diffusione del testo di alcune intercettazioni, mentre è doveroso distinguere l’intercettazione in quanto strumento di indagine dalla diffusione che ne fa la stampa nell’esercizio di un potere di cronaca che non può essere compresso ma non deve neppure dar luogo ad esercizi inutilmente diffamatori.

È un profilo delicato, che comporta l’equilibrio tra due diritti fondamentali, quello alla repressione degli illeciti e quello alla riservatezza di tutto quanto non è giuridicamente rilevante e in questo semmai potrebbero essere d’aiuto più precise linee guida sui limiti e sul contenuto dei documenti giudiziari che utilizzano le intercettazioni e sui quali si basano spesso le presunte indiscrezioni della stampa.

Se ci sono abusi, è giusto che siano puniti, tanto nell’esercizio della funzione inquirente quanto nella informazione. Ma sarebbe meglio evitare di dare polemiche generiche e forse strumentali, che magari distraggono i cittadini da tasse e balzelli vari dei quali, giorno dopo giorno, sentono il peso sempre più grave, ma procurano danni incalcolabili se le loro conseguenze si proiettano nel futuro.

Non è facile, perché a parole sono tutti concordi nel comprendere la differenza tra i due profili d’interesse generale, mentre nella pratica si vorrebbe surrettiziamente comprimere la funzione investigativa in modo da limitare i danni a chi opera nell’illecito. Uno degli strumenti individuati per questa restrizione è quello di un limite all’arco temporale in cui sono consentite in una specifica indagine le intercettazioni, ignorando che a volte servono mesi per poter cogliere da una frase uno spunto di interesse investigativo, magari con riferimento ad altro soggetto in quel momento non intercettato.

Altro mito alimentato dai nemici delle intercettazioni, e non abbastanza contrastato da chi li ritiene strumento di difesa dal crimine, è che in Italia si fanno più intercettazioni di quante ne disponga la magistratura negli altri paesi, ignorando completamente e magari volutamente come altrove sia organizzato l’apparato investigativo, con la conseguenza che, ad esempio negli Stati Uniti, tutti possono legalmente intercettare, mentre da noi è compito esclusivo dei giudici.

Altro cavallo di battaglia di chi vuole comprimere se non sopprimere le intercettazioni è quello dei costi, trascurando che se le intercettazioni fossero gestite direttamente dallo Stato invece che appaltate a privati il loro costo sarebbe notevolmente più basso. E soprattutto fingendo di ignorare che almeno in parte sono una conseguenza della necessità investigativa in un Paese che ha 120 miliardi di evasione fiscale e 60 miliardi di corruzione, ogni anno, a loro volta almeno in parte strettamente collegate in quanto la mazzetta, per definizione, si paga in nero.

Come si vede, non si tratta di prendere partito pro-giudici o contro-giudici, ma costituisce un fatto di giustizia consentire le intercettazioni delle quali le persone perbene non hanno nulla da temere.

Per questo le parole di Monti hanno sorpreso. Un uomo di Governo ha il dovere di essere attento a quello che dice, specie se in pubblico, anche perché con il livello di interazione e immediatezza raggiunto dal sistema dei mass media una parola lasciata cadere anche non intenzionalmente diventa una dichiarazione ufficiale. Più in alto si sale, più il significato delle parole assume riflessi politici, con impatto anche forte sull’opinione pubblica.

Quando poi si toccano questioni riguardanti la Giustizia, le parole assumono un significato giuridico preciso. Per cui se il primo ministro Mario Monti dice ai giudici: “Basta con gli abusi”, indica un comportamento in qualche misura illecito a maggior ragione perché il Presidente del Consiglio non è un politico qualunque ma un docente universitario di prestigio. Il senso delle sue parole è che i giudici, coloro, cioè, che devono fare giustizia ed assicurare la pacifica convivenza dei cittadini, abusano in qualche modo del loro potere.

Abuso non è una parola tanto per dire, ma è tema cui il Codice penale dedica il Capo primo del Titolo secondo, dove si tratta delle varie fattispecie previste e punite nell’ambito dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione.

Probabilmente il prof. Monti lo ha detto senza intenzione, ma, trattandosi di materia sensibile riferita ai giudici, che lo abbia fatto proprio lui rende la cosa non meno grave, perché trasmette, dall’alta cattedra dalla quale proviene, una qual delegittimazione dei magistrati agli occhi dei cittadini che ad essi si rivolgono per avere giustizia.

Nella polemica sono intervenuti sia l’Associazione Nazionale Magistrati, sia il Procuratore aggiunto presso il Tribunale di Palermo, Antonio Ingroia, che è all’origine della vicenda con le intercettazioni per le quali il Presidente della Repubblica si è rivolto alla Corte costituzionale, ritenendo violata una sua prerogativa costituzionalmente garantita.

Se un’autorità, anche la più alta della Repubblica, ritiene di adire la Consulta è un suo diritto esercitato ai sensi di legge. Nessuno si deve offendere se chi ritiene di essere stato leso in un proprio diritto lo fa valere davanti al giudice competente. In questo ambito va mantenuta la querelle giudiziaria, mentre non è giusto trarre da una ordinaria azione processuale l’occasione per buttarla in politica, altrimenti si ripete quel contrasto tra politica e magistratura, tra giudici e politici che all’Italia può far solo del male.