Cocoricò, giornalisti in discoteca: racconto di una notte a Riccione (La Stampa)

di Edoardo Greco
Pubblicato il 5 Agosto 2015 - 11:05 OLTRE 6 MESI FA
Cocoricò, giornalisti in discoteca: racconto di una notte a Riccione (La Stampa)

Foto LaPresse/Angelo Emma 03-08-2015 Riccione – Continua la movida sulla riviera romagnola – Nella foto: giovani in coda davanti alla discoteca Peter Pan di Riccione

RICCIONE (RIMINI) – I giornalisti italiani sono tornati in discoteca. Dopo la morte di Lamberto Lucaccioni, sedicenne di Città di Castello che aveva passato una notte al Cocoricò di Riccione prendendo una pillola di Ecstasy, e la conseguente chiusura per quattro mesi della storica discoteca romagnola decisa dal questore Improta, abbondano i reportage sulle notti-disco dei ragazzi italiani.

Davide Lessi per La Stampa ha raccontato una notte al Peter Pan, grosso ballificio a 500 metri di distanza dal Cocoricò. La chiusura del “Cocco” non ha certo fermato il “popolo della notte”, che dispone di numerose alternative nella sola Riccione. E l’annunciata “tolleranza zero” non funziona perché non può funzionare:

«Ehi, ma tu ce l’hai la prevendita?». Stazione di Riccione, ore 00.30. Il primo lunedì senza Cocoricò ha la faccia di Simone, 21 anni, di Arezzo. «Se vuoi ti accompagno a prenderla, costa cinque euro, e poi saliamo insieme nella navetta».

La navetta è una corriera che parte da qui e porta su, fino alla collina. Destinazione Peter Pan, discoteca a 500 metri in linea d’area dal «Cocco». I ragazzi, nel piazzale buio, lo chiamano così. Ne parlano, senza bisogno di domande. «Chiuderlo quattro mesi è una follia», dice Martina, 18 anni all’anagrafe e coroncina hawaiana a stringerle i capelli. «Certo, ci dispiace per quel ragazzo – dice Filippo – ma se muore una persona al ristorante tolgono la licenza al gestore?». Provoca, non c’è tempo per rispondere: la corriera è arrivata. Si va.

Due piani di autobus per quattro chilometri di delirio. Urla, cori da stadio, invettive contro l’autista. Ragazzi pieni. Di vita, d’alcol, chissà. «Bevo, bevo, fino a quando son felice, anche se poi vo-mi-to», intona un bergamasco. E tutti a seguirlo e a passarsi una bottiglia di plastica amarognola. «Havana Cola», dicono. «Ne vuoi?». Dal fondo, intanto, altre grida. Sono di due comitive, una di Bra e l’altra di Cuneo. Avranno sì e no vent’anni, e non vogliono essere da meno. Si diventa subito amici di tutti. Ne resterà una foto su Facebook, forse. Si partecipa a qualcosa che pretende di essere unico. Ma che si ripete ogni sera uguale a se stesso.

«Siamo arrivati oggi», raccontano due ragazzi di Roma. Hanno già l’agenda piena: «Lunedì il Peter, domani il Villa delle Rose, poi chissà il Pascià o la Baia Imperiale, fuori Riccione», elenca Daniele. Le alternative al Cocoricò non mancano. «La festa va avanti comunque, ma c… ci dispiace, non ci siamo mai stati al Cocco», dice Daniele con l’aria trasognante. T’immagini stia pensando ai racconti di un cugino più vecchio: alle serate con Jovanotti, Valentino Rossi, Roberto D’Agostino. Invece, ha solo paura: «Sai, divento maggiorenne tra 25 giorni, non vorrei mi facessero storie all’ingresso».

Alla cassa, dopo 45 minuti d’attesa accalcati uno sull’altro, il suo sguardo diventa disteso. «Ho speso 20 euro, non mi hanno dato il braccialetto per bere ma intanto le bibite me le alza il mio amico». Lo ritrovo poco dopo con in mano un Gin tonic. Nel braccialetto verde del suo amico si legge: «Bevi responsabilmente».

I controlli all’ingresso non mancano. Ma i buttafuori, per legge, possono poco. Nessuna perquisizione, al massimo sequestrano dagli zainetti le bottiglie di vetro mezze finite nel pre-serata. Fuori, ma dentro la bolgia è troppa. «Martina, riprenditi!», urlano delle amiche a una ragazza a piegata in due su una scala. «Forse ha preso freddo», dicono. Forse. Ma forse non solo dolori allo stomaco. Per capirlo, basta farsi un giro per il bagno. Anche lì c’è la sicurezza, all’ingresso. Dentro, a fare il palo, un ragazzo che aspetta solo un cenno. «Serve qualcosa?». Non vende accendini. E pensi a quello che ha detto Federico, un ventiduenne conosciuto in treno verso Rimini: «Mdma, ecstasy, droghe pesanti e leggere: il problema è che voi accomunate tutto». Studia comunicazione allo Iulm di Milano e, qualche volta, al «Cocco» c’è stato. «Quel povero ragazzo di Città di Castello aveva sciolto una sostanza nell’acqua. L’aveva comprata fuori dalla disco. Era la prima volta e in un locale chiuso gli effetti possono essere devastanti. Puoi perdere totalmente il controllo».

«È tutto così ipocrita», il tassista in viaggio verso Riccione sbotta di colpo. «Con la chiusura del Cocco rischio di perdere anche il 30% degli incassi di una serata», dice. Due minuti e siamo lì davanti. Una scritta, enorme, dietro i cancelli del parcheggio chiusi. «La droga uccide». Già. «Guardi – continua il tassista – anch’io ho una figlia di 21anni e qui c’è stata. Andavo sempre a prenderla a fine serata e mi chiedo: dove erano i genitori di quel ragazzo? Ho letto che erano persone per bene. Ma dov’erano?».

Per capire questa rabbia bisogna entrare nella «galassia Cocoricò». Non sono solo le duecento famiglie rimaste senza lavoro. Non è solo l’indotto degli albergatori. Ma tutto un sistema di affari che va dalla partecipazione all’Aquafan, il parco acquatico fuori dal casello autostradale, al Rimini Calcio di cui il presidente è proprio Fabrizio De Meis, lo stesso della discoteca che ha fatto ricorso al Tar. Un business enorme da cui questa città di 35 mila anime non sembra poter prescindere. Per questo si grida all’imbroglio: «Hai presente quando hanno beccato Pantani a Madonna di Campiglio?», dice Fabio Ubaldi. Il consigliere comunale Pd, sconfitto al ballottaggio a sindaco lo scorso anno, spiega: «Tutti sapevano che c’era il doping nel ciclismo. Eppure hanno fermato lui, il nostro ciclista simbolo». Poi lo sguardo torna su, verso la collina e il Cocoricò.