Giampaolo Pansa, alcuni articoli fra i mille nell'Archivio della Stampa Giampaolo Pansa, alcuni articoli fra i mille nell'Archivio della Stampa

Giampaolo Pansa, alcuni articoli fra i mille nell’Archivio della Stampa del giornalista più bravo di tutti

Giampaolo Pansa, alcuni articoli fra i mille nell'Archivio della Stampa
Giampaolo Pansa (Foto ANSA)

Giampaolo Pansa è stato il più bravo di tutti. Come cronista, come narratore di una delle fasi più brutte e pericolose del dopoguerra. In assoluto, se lo si confronta con la raccolta dei migliori articoli di giornali italiani pubblicata dai Meridiani di Mondadori. 

Pansa ha unito capacità di racconto inarrivata a onestà di ricerca e di assoluto rispetto verso l’informazione, quella con la I maiuscola.

Il suo periodo d’oro si può fissare nel periodo che culmina con la metà dei ’70: guerra fredda, strategia della tensione, terrorismo, odore di golpe, scontro sociale al massimo. Tutti i grandi scrittori hanno prodotto, nell’arco di una vita, capolavori e altro, tutte opere degne e ben al di sopra della media, ma su diversi livelli. 

Nel gioco della torre, la serie di articoli pubblicati da Pansa, nel corso del suo più che decennale rapporto con la Stampa di Torino, restano lassù in cima, fra i capolavori non solo del giornalismo, ma anche della letteratura. Sono conservati nell’archivio storico del giornale, con tutti gli articoli pubblicati a partire dalla Gazzetta Piemontese nel 1867.

Rileggere gli articoli di Pansa oggi, a mezzo secolo di distanza, è una esperienza emozionante e stimolante. Ti fa capire, in un tempo di opinioni preconcette, di giudizi precostituiti, di fake news mezze e intere, cosa fosse il lavoro, il mestiere di un onesto cronista. Lui fu il più bravo di tutti. Ma lui non era il fiore nel deserto, attorno a lui fioriva la scuola della Stampa di Giulio De Benedetti, una scuola di grande cronaca e di grandi giornalisti. De Bendetti passò il testimone a Alberto Ronchey nel dicembre del 1968 e ancora qualche anno la grande scuola continuò, prima della rivoluzione, delle assemblee permanenti, della morte di Carlo Casalegno per mano di terroristi.

Uno dei primi articoli di Pansa per la Stampa è del 1961. Datato Courmayeur, racconta la tragedia di due cordate di alpinisti un po’ sprovveduti:

“Nel pomeriggio di ieri, le guide di Courmayeur hanno riportato a valle le salme dei cinque giovani alpinisti lombardi periti in ascensione. Le due cordate erano precipitate a sei giorni di distanza l’una dall’altra:, la prima, composta da tre milanesi, è caduta all’alba di domenica scorsa dalla parete di nordest del monte Ometta; la seconda, costituita da due giovani di Besana Brianza, è precipitata dalla Aiguille della Brenva, nelle prime ore di venerdì. Le cinque vittime non si conoscevano e i luoghi delle sciagure si trovano sui fianchi opposti della catena sul versante di Courmayeur: in Val Veni ed in Val Ferret. II caso ha però voluto che le due disgrazie venissero conosciute quasi nello stesso istante”.

Il racconto di Pansa ha un ritmo tacitiano. Così sarà sempre.

Leggete le righe qui sotto. Sono datate Ferrara, 19 Novembre 1961.

“Il ricordo delle vittime, diciotto anni dopo La “lunga notte del ’43, a Ferrara, aprì la serie degli eccidi fascisti Il 15 novembre undici cittadini innocenti vennero prelevati di notte in casa o in carcere e massacrati davanti al Castello Estense. La spedizione punitiva era stata ordinata dal segretario del p.f.r. Alessandro Pavolini. La morte del federale di Ferrara, assassinato dai suoi stessi compagni di partito, servì da pretesto alla feroce rappresaglia

Pavolini disse: “Camerati! II commissario della Federazione di Ferrara, che avrebbe dovuto essere qui con noi, il camerata Ghisellini, è stato assassinato con sei colpi di rivoltella. Noi eleviamo a lui il nostro pensiero. Egli verrà immediatamente vendicato”. Dall’assemblea salì un urlo: «”A Ferrara! Tutti a Ferrara!”. […] Quattordici ore dopo l’ordine era eseguito. Undici ferraresi giacevano sul selciato umido di pioggia, uccisi a raffiche di mitra e a colpi di pistola, per rappresaglia ad un attentato che era stato compiuto dagli stessi fascisti.  […] La Repubblica Sociale festeggiò la sua nascita con questo eccìdio spietato, senza neppure l’inumano pretesto della vendetta. Ghisellini era stato ucciso da un fascista per contrasti interni dì partito e rivalità personali. L’ordine era venuto dalla frazione estremista ferrarese, che lo riteneva un « tiepido », disposto al compromesso con gli avversari. Il sicario l’aveva soppresso sulle sua «Topolino», nei pressi di Cento, nelle prime ore di domenica 14 novembre. Non fu permessa alcuna inchiesta.

“Le squadre di Verona e di Padova arrivarono in città verso le 20. […] In poche ore 75 cittadini furono raccolti alla caserma Littorio di piazza Beretta, in un salone del pianterreno, male illuminato, con qualche sedia. Indicando gli ostaggi a un «camerata» disse: «Tutta carne da macello, questa notte ».

“Alle 4,30 del mattino entrò nel salone un giovane che aveva – sul berretto una testa di morto. Teneva in mano un foglio di carta protocollo. Lesse. Mezz’ora dopo, la squadra veronese bussò al portone delle carceri di via Piangipane e si fece consegnare il dottor Pasquale Colagrande, l’avvocato Giulio Piazzi, il commerciante Alberto Vita Finzi l’avvocato Ugo Tegllo. Erano stati arrestati 11 7 ottobre con altri ventisette antifascisti. […] Alle 6 del 15 novembre i due gruppi furono condotti in corso Roma e spinti contro il parapetto del fossato del Castello Estense. L’avv. Zanatta fu ucciso per primo, con un colpo alla nuca. Cadde senza un gemito. […] Montagnone gli squadristi fucilarono l’ingegnere Girolamo Savonuzzi e il ragionier Arturo Torboli. Il primo aveva 58 anni, 11 secondo 54. Erano due vecchi funzionari del comune. Dopo il 25 luglio, Torboli aveva avuto l’incarico di liquidare gli Enti e le amministrazioni del fascio. Li spogliarono di tutto, comprese le scarpe. [Nota a margine del vostro compilatore: ecco come lo Stato Italiano, tradito dal re Vittorio Emanuele e dal suo primo ministro Pietro Badoglio, abbandonò in mano ai tedeschi e ai loro killer italiani i propri servitori E la storia, purtroppo, sembra continuare….].

La strage di Ferrara doveva essere portata ad esempio, servire da avvertimento. Da quella notte del ’43, nel linguaggio della stampa re pubblichina entrò un nuovo delicato vocabolo: « ferrarizzare ». Da allora, il compito di tutti I veri fascisti sarebbe stato di « ferrarizzare » l’Italia”.

Dopo Ferrara seguì una catena di eccidi e stragi: Saluzzo, Boves, Benedicta. Chi ha raccontato queste vicende, ha acquisito sul campo della storia il diritto di raccontare anche quel che poi accadde nel versante opposto.

Arriviamo al 1969. Si è avviata una rivoluzione, un anno in ritardo sul resto dell’Occidente, che di fatto non si è più fermata. E siamo dove siamo. Il caos dell’università è stato il male di pi duraturo effetto.

Si comincia con l’aggressione a un professore della Statale di Milano, Pietro Trimarchi, da parte di un gruppo di studenti del Movimento guidati da Mario Capanna. La cronaca del processo a Capanna e colleghi, il giorno della deposizione di Trimarchi, ha questo inizio:

“Dopo la verità di Capanna, la verità di Trimarchi. E Trimarchi, stamane, la sua verità l’ha raccontata ai giudici sema iattanza, ma con molta freddezza, senza infierire, ma anche senza concedere nulla, lasciando il dubbio sulla responsabilità di qualcuno degli studenti imputati, ma confermando punto per punto l’intera vicenda dello « statino »: la validità del proprio modo di concepire e condurre l’esame (non c’erano soltanto leggi e circolari ad imporlo, ma un’esigenza più alta: quella di non rendere l’esame «una cosa poco seria»), l’assalto all’aula 208, il proprio sequestro e la propria prigionia (« macché componente di un’assemblea! Io so che alle assemblee si entra e si esce liberamente, e io invece da quell’aula non potevo uscire…»; e, infine, la coda furente dell’aggressione di via Albricci. Una deposizione-fiume (tre ore al mattino e più di due ore al pomeriggio) condotta con un grande controllo dei nervi, con una sicurezza via via crescente che in certi istanti è parsa quasi un’aria di sfida.

“L’impressione è stata la stessa, che s’era avuta nei dibattiti con il Trimarchi entra con passo sicuro. Sono le 9,37”.

La strage di piazza Fontana è un punto di diapason nella strategia della tensione. Pansa non perde un colpo. E non perde mai la brocca. Non è colpevolista contro Pietro Valpreda quando mezza Italia lo è, non è colpevolista contro Luigi Calabresi quando la sinistra giornalistica ha già emesso condanna senza appello per il commissario accusato di avere ucciso l’anrchico Giuseppe Pinelli che poi alcuni di Lotta Continua assassinarono.

La “pista nera” si affaccia nelle cronache di Pansa fin dai primi mesi del 1970.

Nella seconda metà del ’69, Giovanni Ventura, il libraio di Treviso accusato dal professor Guido Lorenzon di sapere troppe cose «interessanti » sugli ultimi attentati, venne spesso a Milano e prese contatto con uomini di cultura legati o vicini ai gruppetti rossi, alla sinistra extraparlamentare. La notizia è confermata da diverse parti, e vale anche per Roma dove — come mi ha detto un avvocato padovano suo intimo amico — sembra che il libraio avesse o cercasse gli stessi legami. Eppure, ancora nel 1966, il Ventura era stato l’animatore della rivistina neo-nazista Reazione, «foglio nazionalrivoluzionario», dove egli si fregiava dell’appellativo di «camerata ». Una conversione’improvvisa, e anche spiegabile in un giovane di 26 anni? O il fatto ha un significato diverso?

“E’ una delle tante domande che, in questa settimana, si sono posti coloro che cercano di districare il sempre più intricato groviglio degli attentati di Milano e Roma. Una settimana che ha offerto soprattutto una novità: l’apparire sulla scena dell’inchiesta (almeno al livello delle ricerche giornalistiche) di personaggi dell’estrema destra, legati ai gruppetti neri extraparlamentari.[…] La [nuova]pista è quella emersa a Treviso, con le accuse mosse dal prof. Lorenzon al libraio Ventura. Dice la verità Lorenzon? Sembra di sì: ci sono i nastri a provare che le sue non sono fantasie. Ma allora, il professore ha compreso bene le parole di Ventura? E costui è un megalomane, o un innocente, o sa davvero qualcosa di inquietante?”.

E poi nel ’72:

“E’ confermato: nei due « bauli » di atti inviati dai giudici di Treviso a Milano ci sono delle bobine magnetiche che possono rappresentare per Freda, Ventura e Rauti un terribile elemento d’accusa. Sono state registrate dalla Questura di Padova, ascoltando, su autorizzazione della procura, le telefonate di Freda. Dai nastri, e dall’insieme delle testimonianze e degli elementi raccolti dall’istruttore Stiz, risulterebbero delineati con chiarezza i due fatti che sono un po’ il nodo di tutta la vicenda, e che danno sostegno e corpo alla « pista nera » per la strage di piazza Fontana: 1) Nella notte fra il 18 e il 19 aprile 1969 vi fu davvero la riunione pre-terroristica nello studio di Freda. Secondo i giudici di Treviso, ad essa avrebbe quasi certamente partecipato Pino Rauti, allora leader di « Ordine Nuovo », ed oggi membro dell’esecutivo nazionale del msi. [Rauti però fu successivmente assolto e prosciolto da ogni accusa di coinvolgimento in atti terroristici]. 2) Nel settembre 1969, Freda fece acquistare presso la ditta « Elettrocontrollo » di Bologna 50 timer, o temporizzatori Diehl, tipo «ND 900» da 60 minuti primi, identici, come marca, tipo, e periodo di costruzione a quelli che, secondo il perito Teonesto Cerri, nominato dalla magistratura, servirono per confezionare tutti gli ordigni esplosi il 12 dicembre a Milano e a Roma. I giudici avrebbero pure accertato che Freda e Ventura erano alla ricerca di cassette metalliche «Juwell», anche queste uguali a quelle in cui erano contenute le bombe di dicembre.

All’apice della antologia si devono collocare alcuni articoli su elementi della galassia nera. Pezzi di grande bravura, senza cedimenti, senza simpatie, ma onesti, quasi prodromici dei suoi libri decenni dopo. Ecco un assaggio. L’articolo è datato 9 dicembre 1970.

“Deliri del principe nero Valerio Borghese, ex comandante della «X Mas», è fermo al 1943. Con i mille del suo «Fronte nazionale» vuol creare uno Stato-ombra; si tiene pronto a raccogliere il potere, scoppiasse la guerra o la rivoluzione, e a ricostruire la repubblica di Salò. Si sente un De Gaul!e italiano e di sinistra – Opera «nel mistero», ma riconosce d’aver guidato la rivolta di Reggio”.

Detto per inciso, le cronache di Giampaolo Pansa da Reggio Calabria, dove per mezzo anno lo Stato venne tenuto in scacco da una rivolta ormai scivolata nell’oblio, sono altri esempio magistrali di giornalismo.

“Il principe si passa una mano sul volto e sospira: « Sì, forse io sono adeguato. Sì, io sono uomo capace di suscitare un corteo di un milione di uomini. Sono conosciuto, ho un seguito. Ma sono anche troppo anziano. E poi sono contrario all’idea che un uomo solo basti. Ci vorrebbe un gruppo di uomini che sollevi questa bandiera ». […]

“S’è fatto un gran parlare di Borghese, anche se nessuno l’ha mai avvicinato: il « principe nero» che tiene le fila della sovversione di destra, l’uomo della Cia, lo spettrale istigatore degli attentati di Milano, il finanziatore segreto del msi… « Balle: ho dato quattro querele». Ma qual è la verità sul Fronte?

Borghese allarga le braccia: « Be’, potrà chiamarsi Stato quando avrà raggiunto la necessaria solidità ». passibile queste parole putrefatte e mi fissa con gli occhi un po’ sbarrati. Chiedo: ma quanto tempo ci vorrà perché subentriate allo Stato attuale? « Non molto tempo, credo, anche se è difficile dirlo. Se scoppia una guerra…Con una guerra molte cose potrebbero modificarsi… ». Una guerra? Comandante, lei è pazzo, moriremmo tutti sotto le atomiche… Borghese mi scruta con la sufficienza del professionista: «Spero che non venga, ma se una guerra scoppia, non è detto che sia atomica: potrebbe essere ad armi convenzionali. In quel caso, quale classe dirigente sarebbe capace di reggere il timone di questa difficilissima Italia? ». E invece di una guerra, un colpo di Stato, magari con un governo di « tecnici », non le farebbe comodo? « Se fosse a breve termine e inteso a ristabilire l’ordine o per impedire l’avvento dei comunisti, lo riterrei positivo. Ma in linea politica, no: un governo tecnico si presenterebbe come un governo conservatore, e noi invece siamo dei progressisti. Se non credessi né alla destra né alla sinistra, né al centro, potrei essere tranquillamente classificato di sinistra. Siamo perfino per la socializzazione! ».

Borghese parla, parla, parla, fissando il vuoto dinanzi a sé e alzando il pugno a scatti, mentre un’aria di follìa invade il piccolo ufficio. […]

Junio Valerio Borghese alza le spalle e mi fissa. Ho già visto quegli occhi. Erano quelli di un uomo col basco, le mostrine chiare con l’ancora, il gladio e l’alloro, la « P. 38 » alla cintola in una curiosa fondina fatta di tre cinghie incrociate. L’anno era il ’44, io stavo in terza elementare, lui comandava per il fascismo più ribaldo la « X Mas ». Ricordo un’estate di spari e di polvere, e poi un autunno pieno di pioggia, le valli del Piemonte rastrellate, partigiani impiccati con al collo un cartello che diceva: « E’ passata la Decima ». Adesso Borghese ha un pullover coi bottoni e 64 anni sulla schiena un po’ curva. 

Di pochi giorni prima è “Squadristi in doppiopetto” 

Questo l’inizio:

“Onorevole Almirante, a Cuneo l’aspettano per un comizio… « Ci andrò, ci andrò ». Quando? «Non lo so. Penso durante una campagna elettorale, quando il signor prefetto non può vietarmelo ». Perché non c’è andato a maggio, per le ultime elezioni? «Non potevo parlare dappertutto. Ho scelto le piazze più utili. Cuneo non era una piazza utile ». E’ vero che lei ha paura di andare a Cuneo? Gli occhi verde-grigio di Aimirante sono gelide biglie di vetro: «Pensi quello che vuole ». Ma ce l’ha paura? «Io ho sempre paura, ma sono 25 anni che la supero col coraggio. Lei crede che si possa stare a questo posto impastati di paura? ».

“Ma io resto a questo posto, anche se sono momenti duri e altri più duri ne verranno. Vedo la situazione in termini drammatici ». Tanto drammatici da rischiare la pelle? « Esattamente ». Potremmo arrivare alle soglie della guerra civile? « Senza dubbio. Non la desidero affatto, sarei un suicida, ma tutto mi fa pensare così… »

“Sembra più vecchio dei suoi 56 anni: asciutto ma livido, tutto occhiaie, la faccia un po’ disfatta di chi tira in lungo la notte. L’ufficio ha un’aria neutrale. Mussolini non c’è, da tempo l’hanno trasferito in anticamera, in un angolo in cui nessuno lo vede. Di nero sono rimaste solo due cose: un labaro delle ausiliarie di Salò (la repubblica filonazista non è rinnegata) ed il quadro della situazione italiana che Almirante si porta ficcato in mente. E’ un complotto Vediamolo assieme. L’Italia democratica è alla vigilia del collasso. La dc, « passeggiatrice della. politica », si è arresa. Il psi è un cavallo di Troia. Il pci, ormai nell’area del potere, è divenuto l’arbitro assoluto della vita nazionale. 

“«Il pci tenterà d’arrivare alle elezioni avendo fra le mani tutte le chiavi del potere, al limite, in modo da poter perfino impedire che le elezioni del 1973 si svolgano con le garanzie democratiche… ». Si rende conto della gravità di ciò che sta dicendo? « Sì». Onorevole Almirante, non è una visione deformata fino alla caricatura della realtà? «Legga i giornali e vedrà. Che fare allora? Bisogna bloccare la scalata al potere del comunismo».

«La destra siamo noi e solo noi » ammonisce. Una destra « capace di presentarsi quale difesa dell’ordine nella giustizia » e che ha capito di poter contare solo se si mette al servizio di un gioco più ampio di quello della nostalgia. E’ il discorso del fronte anticomunista, un discorso rozzo ma efficace, sul quale adesso Almirante ritorna: « Non sono un velleitario, non propongo il Centro Destra, una volta fatto il quale metterei fuori legge il pci».

“Usciamo. Nell’atrio lo aspettano il federale di Roma e altri capi minori, Rauti e Anderson. Un fascista a me ignoto loda la « sintassi » del segretario e le sue virtù oratorie, altri lo salutano col braccio teso. Ridiamo tutti mentre Aimirante si abbandona docile al fotografo. Gli dico che i suoi occhi verde-grigio sono bellissimi, e lui risponde allegro: « Quando sarò al potere, a chi non ha gli occhi come me: pumpum-pum… ». Rido, poi mi viene in mente Almirante segretario di redazione alla Difesa della razza e allora, di colpo, non rido più”.

Tre anni dopo, il 20 gennaio 1973:

«La destra nazionale è nata, viva il fascismo di Salò» si dovrebbe gridare; invece nessuno dei mille dell’Eur ha il coraggio d’ammetterlo: sul fondale, il blu sostituisce il nero, e Almirante ripete, giulebboso, che « abbiamo rinunciato saggiamente ad un rituale sorpassato». Ma la storia è più forte di ogni ipocrisia, i fantasmi ritornano, il vecchio tiene a battesimo il falso nuovo. Sul palco della presidenza, Lauro sonnecchia annoiato. L’ammiraglio Birindclli è ingrugnito perché, dicono, avrebbe voluto presiedere lui il congresso. I più vispi sono gli uomini della « repubblica delle teste da morto ». C’è Paglioni, capo dei fasci dell’Emilia. C’è Franz Turchi, prefetto repubblichino della Spezia. C’è Abelli, già «Decima Mas». C’è Tremaglia, sottotenente di Salò.

Almirante sembra innervosito da quei ricordi guerreschi e tamburella impaziente sul tavolo presidenziale. […]

“Adesso il congresso ascolterà il «papà» del nuovo corso, l’inventore della grande destra. Almirante si alza, pallido, elegantissimo, il baffo curato, gli occhi grigioazzurri gelidi e un po’ biechi. Parlerà a braccio, infaticabile, per più di tre ore, offrendo alla platea tutti i personaggi del suo repertorio di esperto gigione.

“La platea sembra accettare tutto. I vecchi cronisti da congresso ascoltano allibiti elencare fra le « grandi anime che aleggiano nella sala » anche quella di Salvo d’Acquisto, fucilato da quei tedeschi accanto ai quali gran parte della « meravigliosa classe dirigente della destra » cominciò il proprio noviziato politico. E il programma di questa destra? Il discorso di Almirante è il vuoto assoluto, però non importa: ci penserà, fra qualche tempo, la prima assemblea corporativa.

“Milioni di parole banali («ma anche le banalità fanno politica » taglia corto Almirante) piovono sul congresso, i mille dell’Eur ridono felici udendo ribattezzare Andreotti «l’onorevole camomilla ». o rimproverare Gonella, « il mammasantissima della destra dc », per aver messo fuori Valpreda.

“Il vuoto ideologico si accentua e la retorica non basta a riempirlo. È il trionfo.

Ci sono ancora due articoli che si devono ricordare, fra le migliaia conservati in archivio alla Stampa. Uno è quello sugli “squadristi di San Babila”, del 10 febbraio 1973.

“Gli squadristi di San Babila, i fascisti arroccati nel cuore della città un nemico lo hanno già in chi ha la barba o i capelli lunghi, chi porta l’eskimo o una sciarpa rossa. In quattro mesi hanno fatto registrare un crescendo impressionante di pestaggi, scontri con altri gruppi o poliziotti, sparatorie e vandalismi. Quel che muove i picchiatori fascisti di San Babila è qualcosa di più torbido ed oscuro, qualcosa che mi ricorda ciò che non vorrei ricordare, un atto di razza, ecco… 

L’altro è dell’8 agosto 1971. È intitolato La Maestrina di Corleone. In Italia ancora il nome di Salvatore Riina non era quello che poi sarebbe tragicamente diventato. Sulla Stampa, a firma Pansa, apparve l’intervista a Ninetta Bagarella, allora fidanzata del futuro capo dei capi.

Sarebbe bello potervela riproporre, ma la memoria del computer e di WordPress non regge.

 
 
 
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