Un euro per un caffè, 1936 lire. In quella tazzina la storia di un’economia storta

di Lucio Fero
Pubblicato il 26 Ottobre 2010 - 15:11| Aggiornato il 27 Ottobre 2010 OLTRE 6 MESI FA

Roma capitale è pronta, presto darà l’esempio al resto del paese e il resto, qualcuno si è già avviato, seguirà. Obiettivo, traguardo e meta: un caffè uguale un euro. Un euro, cioè un dollaro e quasi quaranta centesimi. Un euro, cioè 1936 delle vecchie lire. Un euro per una tazzina di caffè al bar: svalutazione selvaggia dell’euro o impennata violenta delle quotazione del caffè? Al nuovo prezzo ci si può adattare, rassegnare. Eppure è una storia tristemente istruttiva quella della irresistibile marcia del prezzo al consumo di una tazza di caffè. Ai tempi, prima del cambio della moneta, un caffè al bar lo pagavi mille lire. Tra poco si pagherà 1936 lire. Il doppio in dieci anni. Quasi duemila lire a caffè in un decennio di inflazione controllata e bassa, alla fine di quasi tre anni di contrazione dei consumi. La tazzina di caffè ad un euro sfida tutte le leggi e le regole dei manuali dell’economia.

E allora, perché? Francesco Geracitano, presidente della Associazione nazionale torrefattori, è dolente ma fermo nel puntare l’indice verso l’aumento del costo della materia prima, appunto il chicco di caffè. Però Alberto Pica, presidente dell’associazione bar, latterie e gelaterie di Roma, uno che sta dalla parte di Geracitano, calcola che in una tazzina di caffè ci sono undici centesimi di costo per acquistarlo il caffè. E gli altri 89 centesimi? Dicono due per lo zucchero, sembra tanto ma mettiamo che sia così: siamo a tredici centesimi. Poi ci sono i costi del personale, del locale, dell’energia, insomma di chi il caffè lo fa, della gestione del posto dove si vende, della macchina che lo sforna e scalda. Dicono che, tutto sommato e diviso per il milione e trecentomila tazzine di caffè che ogni giorno si vendono e consumano a Roma (a Milano molte di meno, circa trecentomila) il costo di produzione e commercializzazione arrivi a sessanta centesimi.

Le associazioni di consumatori contestano il calcolo, dicono che invece il costo per l’esercente arriva a 23 centesimi e non a sessanta. Bella differenza, anzi enorme ed incomprensibile differenza. Uno dice una cifra, l’altro la triplica. Uno dice una cifra, l’altro la divide per tre. Qualcuno non solo esagera, qualcuno o forse entrambi “barano” con i numeri. Mettiamo abbiano ragione e dicano il vero i torrefattori e baristi. Se è così, la tazzina di caffè dimostra e illustra tutte le inefficienze e storture del sistema della distribuzione e commercializzazione in Italia. Mettiamo anche che torrefattori e baristi calcolino con giustezza e sincerità i sovra costi dell’energia, del mercato degli immobili, degli obblighi previdenziali e assicurativi. Resta un sovra costo pazzesco: da 13 a 60 centesimi, un sovra costo che moltiplica per cinque il costo iniziale della materia prima. Se è tutto esatto, prima ancora di venderla, solo “produrla” la tazzina di caffè in Italia costa il 500 per cento dello stesso caffè.

Cinquecento per cento, il costo ovvio e obbligato di alta tecnologia applicata alla materia prima, di lavorazioni specializzate, di mano d’opera iper qualificata? Ovviamente no, è una tazzina di caffè non un Ipad. Ma se torrefattori e baristi non mentono spudoratamente è costo più o meno vero. Costo della filiera lunga, costo dell’intermediazione, costo della bolla immobiliare, costo fuori mercato dell’energia. Insomma costo del “legno storto” dell’economia e della società italiana quel cinquecento per cento. Si vede nella tazzina, non c’è neanche bisogno di scrutare i fondi del caffè per indovinarlo.

Mettiamo invece abbiano ragioni le associazioni dei consumatori e che il costo di produzione della tazzina sia di 23 centesimi e non di 60. Fosse vero dimostrerebbe come una categoria applica a suo vantaggio un sovra costo del trecento per cento. Saremmo di fronte ad una “corporazione” che esige pedaggio. Corporazione sorda e invulnerabile alla concorrenza. Mettiamo che la verità sia più o meno in mezzo, verso i 45 centesimi di costo reale della produzione della tazzina di caffè. Il sovra costo cumulato di filiere lunghe, mercato corto e rendita di posizione è di circa il cento per cento.

E fin qui lo abbiamo, anzi lo hanno solo prodotto il caffè. Poi lo vendono e chi lo vende dice che ci deve guadagnare almeno quaranta centesimi a tazzina. Costa sessanta, va venduto ad un  euro. Quaranta centesimi sono circa il 70 per cento di sessanta centesimi. Un ricarico del 70 per cento? Agli esercenti sembra ovvio e doveroso, altrimenti, dicono, “ci rimettono”. Se il costo di produzione non è quello che loro dicono, non sessanta centesimi e neanche i 23 calcolati dalla controparte, se il costo è di circa 45 centesimi, allora il ricarico è di poco superiore al cento per cento. Una percentuale enorme.

Ecco dunque la storia triste della tazzina di caffè allo smodato prezzo alla vendita di 1936 lire, altrimenti dette un euro. Undici centesimi per metterci dentro il caffè, due per inzuccherarlo, una trentina tra costi veri e sovra costi indotti del “sistema economia”, una quindicina di pedaggio alla corporazione. E fanno più o meno sessanta. Più quaranta centesimi di guadagno reclamato come congruo. L’unica consolazione è che, pagato un euro a tazzina, non resteranno spicci per la mancia.