Generazione “Vendesi”

a cura di Antonio Sansonetti
Pubblicato il 13 Aprile 2014 - 06:13 OLTRE 6 MESI FA
Generazione "Vendesi"

Generazione “Vendesi” (foto Ap-LaPresse)

“Oggi il modello sociale ideale non è la comune, il movimentismo e nemmeno l’individuo creativo tout court: è il piccolo business. È quello il fine di ogni aspirazione artistica o morale che uno ha – che sia aprire un ristorante, fare musica o semplicemente buone azioni. Chiamatela Generazione Vendesi

“Generation Sell”, articolo di William Deresiewicz del New York Times sugli hipster, novembre 2011. È stato di recente tradotto da Samuele Maffizzoli per The Post Internazionale.

Deresiewicz indaga sul perché la sottocultura hipster sia sopravvissuta molto più a lungo di tutte quelle che l’hanno preceduta: rockers, beat generation, hippies, punk, slackers (grunge).

L’articolo parla non solo degli hipster, ma di “tutta la generazione del nuovo millennio, intesa come quella nata tra i tardi anni Settanta e metà anni Novanta – di cui gli hipster sono molto più rappresentativi di quanto loro stessi non vogliano ammettere”.

“La cosa che mi colpisce di più di loro è di come siano persone piacevoli: gentili, educate, moderate, amichevoli. I rocker di una volta erano ribelli minacciosi. Ora invece il profilo di questa nuova cultura è più basso, auto-ironico, amichevole, eco-friendly. Quando i Vampire Weekend sono stati intervistati a “The Colbert Report” per la presentazione dell’album “Contra”, gli è stato chiesto, a proposito del titolo, a cosa si opponesse il gruppo. “Alla chiusura mentale”, risposero”.

L’atteggiamento friendly è quello di chi fa “marketing di se stesso”:

“Le persone più influenti del nuovo millennio sono i venditori […] ecco quello che vedo davanti a me, nella città e nella cultura: carretti di cibo, ventenni che vendono portafogli fatti di materiali riciclati, boutique che vendono sottaceti, start up tecnologiche, Kickstarter, negozi di agricoltura urbana e bottiglie d’acqua che vogliono salvare il pianeta.

[…] Le band musicali restano pur sempre band, ma si sono trasformate in piccoli gruppi di imprenditori: auto-producono, auto-pubblicano, auto-gestiscono. Quando sento persone giovani dire che vogliono uscire dalla routine di una carriera noiosa, e fare qualcosa di significativo parlano, molto spesso, di aprire un ristorante.

Le associazioni no profit sono sempre di tendenza, ma gli studenti non sognano più di prenderne parte, ma di fondarne una. In ogni caso, quello che è veramente di moda è l’imprenditorialità sociale – le compagnie che cercano di fare soldi responsabilmente, per poi darli via tutti. È sorprendente. Quarant’anni fa, anche venti, il primo pensiero di una persona giovane, e anche il secondo-terzo, non era certo fare business. Anzi, ‘vendersi’ era considerato una cosa negativa.

Da dove viene questo cambiamento? Meno da Reagan, come uno studente mi ha suggerito, che da Clinton. […] Aggiungete la tendenza degli ultimi dieci anni, ovvero la sfiducia nelle grandi organizzazioni, inclusi i governi, e arriverete alla conclusione che ogni uomo fa per sé.
Il piccolo business è la forma sociale ideale sostenuta ai giorni nostri. Il nostro eroe non è più un artista o un riformista, bensì un imprenditore (basti pensare a Steve Jobs). Autonomia, avventura, immaginazione: l’imprenditoria comprende tutte queste cose. La forma d’arte del nuovo millennio potrebbe essere il business plan.

E penso che questo sia il nuovo punto fisso del millennio – e, come l’idea imprenditoriale, essenzialmente colpisce tutti. Oggi essere gentili, avere una personalità piacevole è tutto: è una personalità commerciale. È il sorriso del commesso e la stretta di mano decisa, perché il cliente ha sempre ragione ed è compito di chi lo serve soddisfarlo sempre. Se vuoi andare avanti, disse Benjamin Franklin, il primo guru del business, fai in modo di piacere agli altri.

Sono stato recentemente contattato da un ragazzo che pianificava di mettere on-line un sito web dove voleva promuovere ai suoi coetanei la necessità di leggere e pensare. Non solo promuovere, ovviamente, ma farci dei soldi. Quando mi ha chiesto un consiglio gli ho suggerito come prima cosa di portare alla luce la frivolezza di molti social media. Bene, ha premesso, concordo con il tuo punto di vista, ma non voglio essere visto come una persona negativa, fa allontanare le persone, se pensano che le stai criticando non vorranno comprare quello che vendi.

Quel tipo di ragionamento è proprio quello di cui sto parlando, il pensiero che giace dietro al sorriso calmo e inoffensivo di una personalità solare – il restare positivo, il sarò tutto quello che tu vuoi che io sia- che tutti hanno. Si, siamo cattivi, anonimi nei commenti online. Ma quando parliamo a nome nostro su Facebook siamo decisamente più allegri, conciliatori, curati, attenti.

Dicono che le persone di Hollywood sono sempre gentili con chiunque incontrino, in quel modo di fare falso classico di Hollywood. Questo perché non sono mai certi di chi hanno di fronte – potrebbe essere qualcuno di più importante di quello che credono, o comunque qualcuno che potrebbe diventarlo più avanti.

Bene, siamo tutti nello showbiz ora, camminiamo sulle uova, inesorabilmente diretti verso i nostri clienti. Stiamo tutti vendendo qualcosa, perché anche se non letteralmente, stiamo comunque vendendo noi stessi. Usiamo i social media per creare un prodotto – un brand – e il prodotto siamo noi. Ci trattiamo come piccoli business, come qualcosa da gestire e promuovere.
L’io d’oggi è un io imprenditore, un io che deve essere preparato ad essere venduto”.