“Ikea sfruttò detenuti politici tedeschi condannati ai lavori forzati”. Le scuse

Pubblicato il 16 Novembre 2012 - 18:15| Aggiornato il 17 Novembre 2012 OLTRE 6 MESI FA
“Ikea sfruttò prigionieri politici tedeschi condannati ai lavori forzati”

ROMA – Ikea ha  riconosciuto, venerdì 16, che l’impiego di prigionieri politici nella ex Germania dell’est era tra i mezzi che consentivano al colosso svedese dell’arredamento a basso prezzo di tenere i costi bassi e i prezzi competitivi.

In un comunicato Ikea si è  detta “profondamente dispiaciuta” di essersi appoggiata, oltre due decenni fa, a

“fornitori tedesco-orientali che utilizzavano manodopera composta da detenuti condannati ai lavori forzati, tra cui anche alcuni prigionieri politici dell’allora regime comunista”.

“Anche se il Gruppo Ikea ha preso le misure necessarie per garantire che i detenuti non fossero usati nella produzione, è ora chiaro che quelle misure non furono sufficientemente efficaci”.

Come nota il New York Times,

“l’impiego di prigionieri politici come lavori forzati, anche se decenni fa,  è un disastro di immagine per una azienda che a volte appare come un ambasciatore culturale per la Svezia “.

Le accuse al colosso svedese dell’arredamento, circolate fin dall’inizio degli anni ’80, sono state formulate lo scorso maggio dalla Svt, la televisione di stato svedese, e l’ammissione di colpevolezza è giunta al termine di un’indagine commissionata dall’azienda di mobili alla società di revisione Ernst & Young.

Nel Paese comunista vennero aperti diversi stabilimenti di produzione. Uno di questi, quello di Waldheim, si trovava proprio accanto a una prigione dove erano rinchiusi numerosi prigionieri politici, costretti ai lavori forzati. Il rapporto pubblicato a Berlino conclude che i manager Ikea “erano a conoscenza della possibilità che i prigionieri politici sarebbero stati utilizzati per la produzione di prodotti Ikea nella ex-Ddr”. Secondo il documento redatto da Ernst & Young le misure per evitare che la cosa si verificasse erano insufficienti.

Rainer Wagner, presidente dell’Uokg, l’associazione che riunisce le vittime del comunismo nella ex Germania Orientale, ha detto che Ikea era solo una delle tante aziende che hanno beneficiato del ricorso ai lavori forzati dal 1960 al 1980. “Ikea è solo la punta di un iceberg”, ha spiegato.

Molti sono ancora i lati non chiari della vicenda e gli spunti polemici. Le associazioni di ex detenuti politici hanno definito l’ammissione di colpa “poco più che un evento di immagine”. Perché, si sono chiesti, è stata incaricata dell’inchiesta la Ernst & Young, che non ha alcuna esperienza in questo tipo di indagini?

Lascia adito a perplessità anche il fatto che siano state diffuse solo quattro pagine di sintesi e non l’intero rapporto, basato sull’esame di 20 mila pagine di documenti interni Ikea e altre 8 mila pagine di documenti governativi.

Un addetto agli acquisti dell’Ikea, citato anonimamente dal Nyw York Times avrebbe detto che

“l’impiego di manodopera carceraria non faceva parte della strategia ufficiale di Ikea, ma sul tema c’era consapevolezza all’interno dell’azienda”. D’altra parte la Germania comunista non faceva differenza fra detenuti politici e criminali comuni”.