Potere d’acquisto: – 40% in dieci anni. Tassa assurda sulla benzina

Pubblicato il 16 Gennaio 2012 - 07:55 OLTRE 6 MESI FA

Il Codacons come regalo di fine anno ci ha dato due notizie pessime, che però, anche se non le conoscevamo così in dettaglio, vivevamo già nei fatti, ogni santo giorno, pur preferendo far finta di niente o limitarci semmai a mugugnare.

Prima notizia: dal gennaio 2002 al gennaio 2012 la perdita del potere d’acquisto per il ceto medio è stato del 39,7%. Seconda notizia: in 10 anni una famiglia di quattro persone ha subito una stangata, per aumento dei prezzi, rincari delle tariffe, manovre economiche, caro-affitti, caro-carburanti, ecc. di circa 10.850 euro. E’ quanto risulta dallo studio sui primi 10 anni di vita dell’euro dal Codacons (Coordinamento delle associazioni per la difesa dell’ambiente e dei diritti degli utenti e dei consumatori).

Qui però ci sono da fare un paio di considerazioni, visto anche che si parla tanto, giustamente, dell’ingordigia dei banchieri e finanzieri che ci hanno portato sull’orlo del baratro dal quale non riusciamo a schiodarci. La prima considerazione è che i prezzi delle merci non aumentano per ordine del medico o dello spirito santo, ma per ingordigia di chi quelle merci produce. e/o vende. Non si può certo invocare a scusante l’aumento vertiginoso del costo del lavoro, per il semplice motivo che salari e stipendi dei lavoratori e impiegati quanto meno del settore privato sono fermi o un crescita stentata e asfittica da un bel pezzo.

Peraltro, quando i rinnovi dei contratti nazionali di lavoro producevano aumenti retributivi notevoli l’inflazione in Italia è arrivata al 24,10 nel ’74, 20,90 nel ’76 e 20,60 nel ‘79, con balzi rispettivamente anche dell’8-10% sull’anno precedente. E’ evidente quindi che, euro o non euro, in Italia c’è qualcosa che non funziona strutturalmente. La perdita del potere d’acquisto non s’è fermata neppure con la camicia di forza dell’euro .

In realtà però la perdita è più grande di quanto indicato dal Codacons, anche se si tratta di perdita di quattrini e non (solo) del loro potere d’acquisto. La responsabilità di questa perdita che c’è ma non si nota è della moda, che in Italia si vanta di essere di livello elevato. Giusto. Il problema è che la moda ci spinge, specie le donne e i giovani, a comprare un sacco di roba della quale si potrebbe benissimo fare a meno senza nessun problema. Ormai ogni anno, anzi a ogni stagione vengono sfornate linee nuove, “più moderne”, marchi nuovi “più ggiovani” (con due g), che in realtà di nuovo hanno solo il nome perché inventati da aziende già esistenti da tempo, più una serie infinita di ammennicoli per essere “a la page”, sentirsi “nel branco”, “più bella”, “più bello”, “più giovane”, “più “fico”, “più cool”, e via pubblicizzando e vendendo.

Una volta l’identità e l’appartenenza sociale venivano dati anche – e a volte soprattutto – dall’appartenenza politica, dalla tessera di partito. A partire dagli anni ’80, i famosi anni della “Milano da bere”, la tessera di partito ha iniziato a essere sostituita con la griffe, con la firma dello stilista in bella vista ovunque, ormai perfino nelle mutande, e l’appartenenza sociale ha iniziato ad essere sostituita da altre appartenenze. All’inizio venne il giubbotto Moncler…. Poi è stato il diluvio. Nulla a che vedere con la mania e l’inondazione dei jeans anni ’60 o degli eskimo anni ’80. Anche perché ci si accontentava di un eskimo e di due paia di jeans per un bel pezzo, non c’era l’ansia compulsiva di comprarne di nuovi a ogni piè sospinto. Sì, certo, le mode cambiavano, come da che mondo è mondo, ma non in modo così vorticoso da diventare per decine di milioni di persone un torchio spremi quattrini.

Non parlo delle spese per telefonini e computer, perché se è vero che anche i loro modelli cambiano è però anche vero che aumentano le loro prestazioni. Il computer che avevo anche solo 5 anni fa è ormai un ferro vecchio, quello nuovo mi permette un sacco di cose in più, idem il telefonino, e il tablet non esisteva ancora. Le scarpe, il giubbotto, la giacca, gli stivali, la borsetta, ecc., invece non forniscono prestazioni migliori rispetto quelli di 5 anni fa, tanto meno rispetto quelli di due anni fa. Eppure…. Lasciamo quindi fuori dal discorso le spese per l’elettronica, che meritano semmai un discorso a parte.

Il Codacons non ha inoltre tenuto conto di un’altra spesa, alla quale siamo costretti in nome – o con la scusa – dell’ecologia: cambiare auto perché quella che abbiamo viene dichiarata troppo inquinante e perciò le si impongono sempre più limiti e divieti alla circolazione. Man mano che si producono – per fortuna – auto con motori meno inquinanti si è passati dagli Euro 1 del 1993 fino agli attuali Euro 5, scodellati tre anni fa. Non so se mi spiego: lo Stato e gli enti locali anziché investire davvero in opere utili ad abbattere o almeno diminuire l’inquinamento preferiscono limitarsi a tentare di contenerlo a nostre spese!

Anziché varare un piano di metropolitane e idrovie e potenziare le ferrovie, con investimenti che farebbero keynesianamente da volano per la ripresa economica, si preferisce spremere l’automobilista, facendolo però restare automobilista il più possibile. Che senso ha permettere alle auto, che sono comunque tutte in qualche misura inquinanti, di entrare nei centri urbani facendo pagare il ticket, ma senza mai destinare il ricavato dei ticket alla lotta all’inquinamento in nome della quale il ticket è stato istituito?

Quando si parla di automobili e automobilisti si parla implicitamente di benzina. Si parla cioè ancora di tasse, perché i 2/3 del prezzo del carburante è costituito proprio da tasse, oltre che di ingordigia ingiustificata dei petrolieri. Questi infatti il prezzo dei carburanti lo aumentano in continuazione con la scusa dell’aumento del prezzo del petrolio. Però non lo calano mai quando il prezzo del petrolio cala, e comunque il costo del petrolio non c’entra nulla: i contratti di estrazione delle compagnie petrolifere, sono contratti che durano decenni, durante i quali il costo del barile per chi lo estrae non cambia o, se cambia, cambia di molto poco, i prezzi non fanno certo ogni giorno una danza diversa.

Anziché continuare a prendere in giro gli italiani, almeno quelli che le tasse le pagano, non si potrebbe cominciare a mettere sotto controllo i prezzi di benzina, gasolio e gas da trazione? Il professor Monti, per evitarci il record europeo dei loro prezzi, non potrebbe eliminare almeno le accise? Vale a dire, le tasse aggiuntive che, oltre all’Iva, ancora oggi comprendono i seguenti contributi, per ognuno dei quali abbiamo indicato l’anno di introduzione:

– per la guerra in Libia, 1935;

– per la crisi di Suez, 1956;

– per il disastro del Vajont, 1963;

– per l’alluvione di Firenze, 1966;

– per il terremoto del Belice, 1968;

– per il terremoto del Friuli, 1976;

– per il terremoto dell’Irpinia, 1980;

– per la missione di pace in Libano, 1983;

– per la missione di pace in Bosnia, 1996;

– per gli aumenti di stipendio agli autoferrotranvieri, 1996;

– per aiuti agli immigrati e alla cultura, del 2011.

Pagare in tasse ormai più o meno la metà dei propri redditi da lavoro, da pensione o da quant’altro non sia rendita finanziaria o plusvalenze di Borsa, significa lavorare per lo Stato più o meno sei mesi l’anno. Anche ammesso che lo spread e l’euro guariscano dalle convulsioni attuali e che la Lega non minacci più sfracelli, quanto tempo pensiamo di poter andare avanti così senza scollamenti sociali e rivolte di massa?