Dove compro e vendo voti a 50/80 l’uno? Venga al mercato delle preferenze

di Riccardo Galli
Pubblicato il 12 Ottobre 2012 - 14:39 OLTRE 6 MESI FA
LaPresse

ROMA – No, le preferenze no. Per favore. Tra le varie ipotesi di riforma elettorale sembra che il ritorno delle preferenze abbia ottime possibilità di diventare realtà. Franco Fiorito, 23mila preferenze, e simili non hanno insegnato nulla. Come nulla si è appreso dalla compravendita di voti che il sistema delle preferenze potenzialmente genera. Le vuole quello che era il centrodestra, contrario il centrosinistra che preferirebbe i collegi, cioè due, tre , quattro candidati di schieramenti diversi tra cui l’elettore sceglie appunto collegio per collegio. E poiché al peggio non c’è mai fine, che siano collegi o preferenze, con l’ipotesi di riforma elettorale oggi sul tavolo, quasi certamente dalle urne uscirebbe un governo senza maggioranza. O delle maggioranze gelatina che a guardarle fanno ridere e piangere.

Una rediviva Casa delle Libertà (Pdl, Fli, Lega e altri) ha approvato in Commissione Affari Costituzionali un testo base di riforma che prevede un sistema di voto proporzionale con un premio di maggioranza, assegnato alla coalizione vincente, del 12,5% e con i due terzi dei seggi assegnati con il sistema delle preferenze e il restante con liste bloccate.

Evidentemente impermeabili alla cronaca, oltre che alla storia, i partiti dell’ex centrodestra, Casini compreso, puntano ora decisi e uniti su un ritorno alle preferenze. L’attuale legge elettorale, il porcellum, affidò di fatto alle segreterie di partito la scelta dei parlamentari. Cosa che, comprensibilmente, suscitò non poche proteste. Cambiare questo sistema è quindi effettivamente anche una richiesta che viene dall’elettorato ma, come ricorda Luigi La Spina su La Stampa, il sistema di voto che prevedeva le preferenze fu bocciato da un referendum di metà anni ’90. Bocciato con il 95% dei consensi.

Quello che più conta però non è il referendum in questione, lontano ormai quasi vent’anni, ma la cronaca di questi giorni e di questi mesi. Cronaca della politica locale dove le preferenze sono rimaste al loro posto, mai abolite. Samuele Piccolo, vicepresidente Pdl del consiglio comunale capitolino, finito in carcere l’estate scorsa per associazione a delinquere, frode fiscale, appropriazione indebita e illecito finanziamento dei partiti, fu al momento della sua elezione il campione delle preferenze, raccogliendone oltre 12mila.

Come lui Vincenzo Maruccio, ex consigliere regionale laziale Idv accusato di aver intascato alcune centinaia di migliaia di euro di soldi pubblici, forte di 8mila preferenze. E poi il campionissimo della preferenza: Franco Fiorito. Lui, l’ex sindaco di Anagni nonché ex capogruppo Pdl alla Pisana, ora in carcere, di preferenze ne aveva ottenute addirittura 23mila. Bravo. Se questi tre casi non fossero poi sufficienti a mettere almeno in allarme chi le preferenze invoca, basterebbe guardare alla Lombardia dove un ormai ex assessore (Pdl) le sue 4 mila preferenze le aveva letteralmente comprate. Prezzo 50 euro l’una con in più, sostengono gli inquirenti, l’intermediazione della malavita organizzata. E lui, Domenico Zambetti, a quanto pare aveva anche spuntato un buon prezzo perché al Sud il prezzo di una preferenza raggiungerebbe gli 80 euro.

I nostri parlamentari sono però evidentemente poco reattivi. Hanno impiegato ben 7 anni per recepire il malcontento che il sistema del porcellum aveva generato e chissà quanto impiegheranno per fare loro la lezione che dagli scandali della politica locale di oggi arriva. Se il tempo medio è di oltre un lustro ci vorranno almeno altre due legislature per aspettare che comprendano il pericolo intrinseco che le preferenze portano. E se “la politica è diventata un sistema di collocamento ad alta rendita”, come scrive Ezio Mauro, la pericolosità di questa appare anche più netta.

“Non c’è bisogno di possedere virtù divinatorie – scrive La Spina – per sapere che cosa succederà con le preferenze. Anche in questo caso, basta ricorrere alla memoria, breve o lunga che sia. Quasi cinquant’anni di storia elettorale, nella seconda metà del secolo scorso, costituiscono un monito più che sufficiente. In sintesi: candidati costretti a spese folli pur di essere eletti, spese che, naturalmente, devono ‘rientrare’ nel corso dell’esperienza parlamentare. Competizioni a coltello, seppur metaforico, tra compagni di partito; dove, né la lealtà, né il merito, comunque, assicurano la vittoria. Condizionamenti di lobby professionali di ogni genere e un profluvio di promesse alle più svariate corporazioni e alle più fameliche clientele, promesse da mantenere, pena la mancata rielezione. Infine, un ricatto esasperante e paralizzante nei confronti dei vertici dei partiti, in nome di quel tesoretto di voti acquistato con tante fatiche e tanti denari”.

Una prospettiva niente male. Ma una prospettiva che le forze politiche al lavoro sulla riforma della legge elettorale sembrano ignorare eppure, come suggerisce ancora La Spina, una soluzione esisterebbe. Per restituire ai cittadini la possibilità di scegliere chi mandare in Parlamento, senza incappare nei rischi delle preferenze, basterebbe ricorrere ai collegi. “Una sfida semplice tra due candidati che permette a chiunque di scegliere la faccia del vincitore. Si può discutere l’ampiezza di questi collegi, perché l’alternativa tra quelli ridotti e quelli che raccolgono un gran numero di votanti presenta vantaggi e svantaggi. Ma è difficile sostenere che la trasparenza del verdetto sia assicurata in maniera migliore dal sistema delle preferenze. Sempre per quest’ultima esigenza, la prima e l’essenziale in una democrazia, i partiti potrebbero estendere, nel territorio del collegio, l’abitudine delle primarie, per sondare il gradimento popolare nei confronti dei loro candidati”.

E proprio in questo senso vanno le proposte del Pd: collegi e non preferenze. Ma che si votasse con un sistema o l’altro, prevedendo entrambe le ipotesi di riforma dei “mini” premi di maggioranza (12,5%) assegnati per di più non al partito ma alla coalizione, quasi certamente dalle urne uscirebbe un governo debole, almeno numericamente. A prescindere da collegi o preferenze l’alleanza Pd – Sel, oggi data per vincente, non avrebbe infatti la maggioranza assoluta in Parlamento e, per raggiungerla, dovrebbe tornare a far squadra con Antonio Di Pietro, ben contento di questa prospettiva. In questo modo nessuno riuscirebbe a formare un governo forte, compatto, e soprattutto non esposto al continuo rischio di una caduta anticipata. Eppure questa fattispecie, nonostante sia nota a tutti gli attori che di riforma elettorale si occupano, sembra non preoccupare poi tanto. Anche perché le alleanze, quelle vere, i partiti le faranno solo dopo che si conosceranno le regole con cui si giocherà.