Più Iva, meno pensioni e Irpef. Fondo giovani e taglio ai politici. Chi la fa questa manovra?

di Mino Fuccillo
Pubblicato il 6 Settembre 2011 - 15:11 OLTRE 6 MESI FA

ROMA – Non c’è bisogno di interrogare la zingara-economista: quel che si deve fare è già stampato da tempo con l’inchiostro dell’aritmetica e del buon senso. Non scrive più da tempo la penna del buon governo, nessuno la impugna più, sperduta in chissà quale cassetto. Ma questo signor problema è pur sempre altro problema da quel che si deve fare.

Primo: taglio immediato e “lineare” del 25 per cento di stipendi e indennità degli eletti al Parlamento e ai consigli regionali, comunali e provinciali. E taglio immediato del 25 per cento dei rimborsi elettorali ai partiti? Fanno poche decine di milioni di euro in un anno? Diciamo qualche centinaio di milioni. Poco, pochissimo per risanare. Ma tanto, tantissimo per avere la credibilità e legittimità di fare il resto. Fanno poche centinaia di milioni ma valgono “miliardi” quei tagli che la politica fugge, evita, rimanda.

Secondo: in pensione a 65 anni tutti, uomini e donne e da subito, da domani. Non è macelleria sociale, non ci muore nessuno. E’ anzi la garanzia che le pensioni non le prenderanno solo i prossimi ad andare in pensione ma anche quelli che ci andranno tra lustri e decenni. E’ una misura di equità sociale e di civiltà politica smetterla con la divisione degli italiani pensionandi in varie “famiglie”, quelli fortunati e sfortunati, quelli che saltano sull’ultimo treno e quelli che restano a piedi.

Terzo: aumento dell’aliquota Iva di due punti percentuali, dal 20 al 22 per cento. E’ l’unica per spostare il peso insopportabile della tassazione “dalle persone alle cose”. L’unica per far partecipare l’intero paese e non solo chi non “se la cava” e “non si arrangia”. Aumento dell’Iva subito e non “per tre mesi” come incautamente e incredibilmente ha detto niente meno chi guida il governo. Un’Iva aumentata a tempo e per soli tre mesi sposterebbe la decisione di acquisto a tre mesi dopo. Possibile che Berlusconi difetti nelle sue dichiarazioni anche dell’alfabeto dell’economia?

Con il punto uno che legittima, il punto due che taglia la spesa previdenziale in maniera “strutturale”, cioè non mette una pezza ma raddrizza per gli anni e a venire e il punto tre che garantisce risorse sicure si rende credibile, anche se non certo, il pareggio di bilancio tra il 2013 e il 2014. Ma, anche se contabilmente non ce la si dovesse fare, con taglio alla politica, pensione a 65 anni e aumento dell’Iva si comunica al mondo che si fa sul serio e ci si può fidare del governo e del bilancio italiano e, in fondo, dell’Italia stessa.

Finito? No, tutt’altro.

Quarto: tassazione moderata ma costante sui patrimoni immobiliari, sì, sulla casa. Niente stangata e niente una tantum. Ma tassa sulla proprietà immobiliare, contenuta e generale. Quel che era l’Ici? Quel che era l’Ici un po’ rafforzato nelle quantità e migliorato nella definizione della platea dei contribuenti: non  il valore di mercato delle case ma neanche l’improponibile attuale “valore catastale”.

Quinto: il recupero dell’evasione fiscale, almeno di una sua minima parte.

Sesto: il destinare quanto dal punto quattro e cinque più il risparmio ottenuto per via di calo degli spread indotto dai primi tre punti alla famosa “crescita”. Per “crescita” in Italia si intendono due cose ben diverse. La maggior parte delle forze politiche, comprese quelle di opposizione, intendono per “crescita” iniezioni di spesa pubblica nel corpo semi paralizzato dell’economia. Ma la crescita possibile non è questo rito di rianimazione. E’ altro: è destinare i proventi della tassa sulla casa, il recupero parziale dell’evasione e il risparmio degli interessi sul debito alla diminuzione lenta ma immediata e progressiva delle aliquote Irpef e dell’Irap, insomma delle tasse su impresa e lavoro. Con la contemporanea creazione di un  fondo, questo sì di welfare e di “protezione sociale” verso i giovani, la loro formazione professionale, i loro contratti, i loro periodi di vacanza di contributi previdenziali.

Con i primi tre punti, alla grossa circa trenta miliardi si risparmia per il pareggio. Con gli altri tre punti, circa altri trenta miliardi, si incassa e si spende per la crescita. Basta? No, non basta. Ma è questo quel che l’Italia può e deve fare. Il resto lo deve fare l’Europa. E il resto non è comprarci all’infinito titoli di Stato. Il resto è passare da una unione solo monetaria che non tiene più e si sta sfaldando ad una un ione fiscale e di bilancio. Stesse regole previdenziali e fiscali in tutta Europa, stesse regole e vincoli di bilancio. Significa che ogni Stato europeo, se vuole tentare di salvare l’euro e l’Europa stessa deve cedere sovranità, tanta sovranità ad un governo e Parlamento europeo.

Quel che l’Italia deve fare il governo italiano non lo fa perché le forze politiche che lo compongono, la stessa natura e fibra dei vari Calderoli, Sacconi, Bossi, Alfano, Cicchitto e “Quagliarelli” non lo contemplano, anzi lo escludono. Chiedere a questo ceto politico di rischiare di formare nuovo consenso, di rischiare scelte è come chiedere ai gatti di non fare le fusa e ai cani di non abbaiare più. Venti anni di pedagogia sociale per cui importa come la racconti e non come è, per cui ci sono solo “opportunità” da afferrare e “occasioni” da distribuire non sono trascorsi gratis. Lo farebbero le forze politiche oggi all’opposizione se fossero al governo? C’è da dubitarne assai. Un solo episodio leva ogni illusione al riguardo: il Pd ha proposto alla maggioranza di ritirare di fatto tutti i suoi emendamenti alla manovra se si cancellano i tagli di spesa a Comuni e Regioni e Province. Il Pd è e resta il partito della spesa pubblica finanziata dal fisco che la rincorre. Per non parlare di Sel o Idv che giudicano attentato alla Costituzione ogni cambiamento dei connotati sociali di un paese che sta andando in bancarotta. Quel che maggioranza e governo attuali non possono fare e non fanno per natura e quel che l’opposizione una volta al governo non farebbe, o non farebbe appieno, per cultura, potrebbe farlo un governo nazionale, di emergenza, con dentro più o meno tutte le forze politiche? Improbabile: questo governo obbedirebbe anch’esso alla logica del fare il meno possibile, cercando di trovare il minimo comun denominatore dell’indispensabile.

Eppure non c’è bisogno di interrogare la zingara-economista. E’ scritto quel che va fatto, ora e subito. Non fosse che in nome del buon senso, quello che dice che un semaforo rosso all’incrocio impone di frenare, rallentare e fermarsi. Ma la politica italiana obietta: se freno e fermo, allora da dietro l’infinita colonna e fila delle corporazioni, degli interessi, dei sondaggi comincia a suonare il clacson a mille. E’ il grido dei clacson una buona ragione per gettarsi nell’incrocio con il semaforo rosso? La politica italiana risponde di sì. Già più e più volte il governo ha “attraversato con il rosso” pensando fosse una buona idea, spinto dai clacson leghisti e del Pdl e spinto dagli infiniti clacson che si levano dalla società. L’opposizione al posto di Berlusconi cambierebbe sì strada, ma non stile di guida. Per questo dell’Italia l’Europa e i mercati non si fidano più. Fino a prova contraria che non arriva. Fino a prova contraria per cui c’è poco tempo. Fino a che l’Italia, la gente, non capirà e non vorrà capire che se l’Italia “perde l’accesso ai mercati” questo vuol dire non un astratto e impersonale non poter più pagare i “mercati”. Vuol dire invece non avere più dai mercati i soldi per pagare le pensioni, gli ospedali, le scuole, gli stipendi.

E se l’Italia, per inaspettato scatto di reni, facesse il suo? L’Europa ce la farà a volere se stessa unita non solo dall’euro? Unita nelle leggi e nell’economia? I sondaggi d’opinione e gli orientamenti elettorali dicono che gli elettorati oggi boccerebbero “cessioni di sovranità”. Se così sarà, allora non solo non saranno eurobond, oggi improponibili ai tedeschi finchè l’Italia non fa il suo. Allora non sarà più euro. Peggio per tutti, molto peggio per i più deboli.