Fossalta dopo Adro: le maestre regalano il buono pasto alla bambina povera, il sindaco vieta: “E’ beneficienza-reato”

di Riccardo Galli
Pubblicato il 14 Febbraio 2011 - 16:09| Aggiornato il 21 Febbraio 2011 OLTRE 6 MESI FA

FOSSALTA DI PIAVE – La storia è di quelle che si ripetono sempre più spesso, una riedizione della “Adro story”. E’ una storia semplice. La storia di una bambina africana di 4 anni che non ha i soldi per pagare la refezione all’asilo. Le sue maestre, insieme alle bidelle, decidono quindi di donare i loro buoni pasto perché la piccola possa mangiare insieme agli altri. a Adro, dove nella primavera del 2010 un anonimo benefattore saldò le rette di 42 bambini non in regola con i pagamenti della mensa che il sindaco leghista voleva lasciare con il piatto vuoto, le “mamme di Adro” si ribellarono, non contro il sindaco ma contro chi pagava di tasca sua ai figli dei “mangiapane a tradimento”. A Fossalta di Piave per ora di simili mamme non ce ne sono, ma c’è il sindaco. Massimo Sensini blocca infatti l’iniziativa delle maestre con la motivazione che donare i propri buoni pasto non si può fare perché rappresenta un danno erariale per le casse comunali. Risultato: le maestre sono costrette a rinunciare e la piccola a tornare a casa a mezzogiorno, senza aver mangiato.

Nella Scuola dell’Infanzia “Il Flauto Magico” di Fossalta di Piave c’è una bambina di origine africana che chiameremo Speranza, anche se questo non è il suo nome. Speranza viene da una famiglia di immigrati africani, il padre operaio e la madre che si prende cura dei figli, 5 in tutto, due più piccoli di Speranza, due più grandi, già alle elementari. Quando compie 3 anni ed è pronta andare all’asilo, Speranza non riesce a iscriversi a scuola perché non trova posto: l’istituto può accogliere solo cinquanta bambini. Ci riesce però un anno dopo, a 4 anni, una buona notizia per la famiglia della piccola che però è costretta a fare i conti con sempre crescenti difficoltà. Il padre di Speranza ha perso il lavoro ed è stato costretto ad emigrare in Belgio per avere uno stipendio da mandare a casa lasciando nel piccolo paesino veneto la moglie, che quasi non parla italiano, e i 5 figli.

Nel frattempo Speranza è stata ammessa nella classe a tempo pieno, il suo orario prevede quindi che rimanga all’asilo sino alle 16 e che mangi a scuola e deve pagare, anche se con tariffa agevolata viste le difficili condizioni economiche, 50 euro al mese per i pasti. La mamma si rivolge ai servizi sociali del comune per chiedere un aiuto, ma le rispondono che non possono fare nulla. Allora le maestre della scuola escogitano una soluzione: ognuna di loro rinuncerà una volta a settimana al pranzo a cui ha diritto (sul posto di lavoro) e lo cederà alla bambina. E’ un gesto di solidarietà pragmatico, discreto. Aderiscono anche le due collaboratrici scolastiche, è d’accordo l’insegnante di religione che viene una volta a settimana. In un istituto in cui si servono 60 pasti e in cui mangiano 50 bambini, in realtà, le pietanze che ogni giorno avanzano basterebbero per tutti. Ma le maestre vogliono che non ci siano irregolarità e così si arrangiano: un giorno una di loro torna prima, un giorno un’altra si porta un panino, un altro ancora un’altra salta il pasto e dice scherzando che le farà bene alla linea.