Usa. Ragazzino sedicenne denuncia la madre: “Ha violato il mio profilo Facebook”

Pubblicato il 9 Aprile 2010 - 13:35 OLTRE 6 MESI FA

Denise New

Qual è nell’era dell’information technology il limite oltre il quale la tutela e, perchè no, la protezione genitoriale di un minore non può andare? Prima che tutti viaggiassimo nel cyberspazio una questione del genere non si sarebbe neanche posta.

Oggi invece sì. E un tribunale di una piccola cittadina americana, Arkadelphia, nello stato sudista dell’Arkansas, tra non molto fornirà la risposta, che potrebbe essere valutata con attenzione anche in altri Paesi. Pure tenendo a mente che i dirigenti del sito di social networking puntano ad aumentare i loro attuali 400 milioni di utenti ad un miliardo. Un miliardo.

La storia: un figlio sedicenne, Lane, senza pensarci sopra due volte ha portato la mamma, Denise New, in tribunale con l’accusa di intrusione informatica sul proprio profilo Facebook, modifica di password e diffamazione a mezzo internet. In altre parole: molestie.

Denise New riconosce di aver cambiato la password, mossa dal comprensibile intento di bloccare l’accesso al social network del figlio, che vi passava ore di seguito, e anche di aver scritto tre o quattro post, ma non di aver fatto hacking, in quanto il ragazzo aveva dimenticato di fare il logout dopo aver usato il computer materno. Ma i motivi veri motivi dell’intrusione della donna nell’identità sociale del figlio nascono anche da altri motivi: una telefonata a Denise da parte di un amico di Lane, preoccupato per le intemperanze di Lane in seguito ad una storia sentimentale turbolenta.

Pare che Lane, a quanto dichiarato da lui stesso in un post su Fb, avesse guidato una notte alla velocità di 150 Km/h, evidentemente turbato dopo un litigio con una ragazza e probabilmente ubriaco. È probabile insomma che la signora New abbia iniziato a sospettare della vita sociale del ragazzo e, indotta in tentazione dal profilo del figlio aperto sul pc, non abbia resistito a intervenire, motivata probabilmente dalla preoccupazione e dalla convinzione che il social network non fosse cosa buona e giusta. «Credevo di essere perfettamente in diritto di farlo. Ho letto cose che avrebbero fatto rabbrividire chiunque. E nondimeno perdonerò Lane per avermi accusato di molestie», ha detto la signora.

Lane, invece, non sembra avere alcuna intenzione di perdonare, ferito non solo dall’idea di essere stato spiato, ma addirittura calunniato dalla madre. E se l’amore materno è incondizionato, quello filiale non dimostra, in questo caso, molta comprensione. Del resto il fine che giustifica i mezzi è una vecchia scusa e Lane si è sentito probabilmente violato nella sua identità profonda, mentre Denise ha reagito alla convocazione in tribunale mostrando grande sbigottimento, evidentemente sorpresa che un profilo Facebook possa essere vissuto da un adolescente come qualcosa di così segreto e importante.

Sono, questi, tempi in cui il confine tra esigenze di controllo genitoriale e diritto alla privacy da parte dei minori è sempre più sbiadito, ma la vicenda giudiziaria nella cittadina crea un precedente importante nello stabilire fino a che punto un padre o una madre possano sorvegliare i propri figli minorenni.

Se la reazione di Lane suscita sbigottimento, va detto che al di là di Facebook e degli account violati, madre e figlio hanno comunque un rapporto con precedenti complicati. Denise e Lane infatti non vivevano insieme: il ragazzino era stato affidato alla nonna, poiché la madre aveva avuto problemi mentali dopo la separazione dal marito. E mentre il giovane si è aperto un nuovo account sul social network, la prima udienza, fissata per il 12 maggio, deciderà chi ha ragione e spiegherà anche quanto c’entri Facebook in questa storia di conflitto generazionale.

È probabile che molti sarebbero sorpresi se il giudice desse ragione a Lane e torto alla madre. Ed è anche probabile che molti la considererebbero una sentenza di una qualche pericolosità. Se infatti il giudice condannasse Denise si creerebbe un precedente difficile da contestare qualora un ragazzino pretendesse dai genitori di avere un suo computer personale con password segreta.